Ossessione

Recensione LV:
In sala Sbargioff torna il conte di Lonate Pozzolo: Luchino Visconti compie un altro passo all'interno delle nostre sale, consegnandoci il suo primo lavoro, "Ossessione", del 1943. Non riporto nemmeno più i presenti, tanto li sapete. Doveroso, invece, è citare le castagne ed il rosso (San Patrignano, 14%) con cui Tigre ci ha intrattenuto durante la visione, cottura perfetta.
Alla fine del film ci dividiamo, più o meno equamente, tra perplessi e soddisfatti (c'è anche un'astenuta, per mancanza di dati raccolti...). Due critiche spiccano, "Inconcludente" e "Inutile", in risposta a chi dice che il film è artisticamente valido.
Come detto in sala, è evidente che il film sia caratterizzato da ritmi non elevati e che non torni utile a preparare un buon caffè :) . Ma, come casualmente ieri mi è capitato di leggere nel capitolo "Lettura del film e analisi fattoriale", tratto da "Linguaggio e tecnica cinematografica" (di Tritapepe, ed. San Paolo, '89), ritengo che il valore in un'opera cinematografica debba essere quantificato prendendo in considerazione anche i fattori "invisibili", leggibili solo con un approfondimento di ciò che sta attorno, prima, dopo. Cioè il momento storico teatro della realizzazione, la formazione culturale e, quindi, ideologica dell'artista (se ce l'ha), il contributo portato al suo campo, echi e conseguenze. Meno male che il moscovita Stanislawskij ha messo un po' di ordine in merito. Quindi: quest'opera di Visconti, nel 1943, fu un mezzo schianto sulla bella facciata di cristallo del cinema all'ungherese su cui gli italiani stavano addormentandosi, gomito appoggiato al tavolo per reggersi la testa nella mano, sullo sfondo i soliti telefoni bianchi...Non solo rottura meramente stilistica, tanto per capirci: questo tizio ha dovuto nascondere una copia della versione integrale, per nasconderla alla censura; la quale, fu già tanto che permise la divulgazione di un rilettura cinematografica di un romanzo scabroso di un americano (per di più tradotto dal suo amico-regista francese Jean Renoir, con cui sette anni prima girò la celebre gita campagnola), figurarsi permettere che si pensasse che quella sullo schermo fosse l'Italia! Che le italiane fossero come quella là!
Detto questo, preciso che per me il film è perfetto per emozioni, fotografia, colori e recitazione. Ecco, prendiamo i due protagonisti: Clara Calamai e Massimo Girotti.
La prima, una gatta reazionaria di Prato, che seppe però distinguere politica ed arte, se il suo seno nudo (tra i primissimi in Italia, nel 1941) vide le luci del set di "La cena delle beffe" di Blasetti, dando il via alla sterile diatriba con la collega Doris Duranti, su chi fosse la capostipite del generoso gesto (Doris risolse tutto notando che lei lo fece in piedi, fieramente senza "traballamenti", mentre Clara da sdraiata, "Eh!"). Volto e fisico che lasciò il segno in tutte le sale dei tempi, e anche in sala Sbargioff, bisogna dirlo. Sguardo fiero e profondo, incute rispetto, lo grida che là dietro non c'è una semplice donna. Risulta, quindi, evidente come per quel ruolo Visconti avesse inizialmente cercato Lei, Anna Magnani (in maternità). Ma a me non è dispiaciuta questa "pezza"...Anzi, credo che la Magnani dal volto meno affascinante, meno "bello", avrebbe condotto il sentimento angosciante di incompiutezza della conturbante Giovanna Bragana, l'ossessione del titolo che permea tutta la pellicola, verso lidi meno erotici e passionali, disperati sì, ma non tali da giustificare, ad esempio, gli eventi sullo schermo (rottura dell'apparente stabilità e tragico finale). In definitiva, bravissima.
La prova di Girotti non è da meno. Volto moglianese impeccabile, fisico idem (vabbè ma era uno sportivo eh), tenebroso senza esitazioni. Opposto alla Calamai, lui comunista, si trovò a suo agio (ciò si coglie anche attraverso la minor teatralità dimostrata in questo film, rispetto alla protagonista) in questo film che parlava di terra, di provinciali percorse instancabilmente da uomini e donne alla ricerca di un lavoro, di un'esistenza. Film di cui resta un senso angosciante di insoddisfazione non per costruzione, ma indotta da un qualcosa (qui sta la grande prova del regista) che non viene chiarito (ellissi continua: atto fisico tra i due protagonisti, assassinio del marito, tragica morte di Giovanna e, appunto, quel "non so che" che non permette di respirare), ma che abbruttisce e fa scattare, gridare, il più delle volte in silenzio.
Calamai e Girotti guidano il lento cammino, seguiti da Citti e Pasut, Magnani e Fabrizi, di tutti i miseri del mondo...
Non perdiamo il passo.
(depa)

3 commenti:

  1. Quello che volevo dire è che, inizio del neorealismo o no, Visconti di sicuro ambienta per strada una storia d'amore, impossibile, tra una donna ferma ed un uomo in eterno incedere...Quindi, se pur quel tal Eugenio Ferdinando Palmieri, in un articolo del 1943, ha osservato che, in opere di poesia precedenti, comparvero già "gli autocarri, le osterie, le armoniche, le biciclette, le sbornie, i vagabondi, le donne calde", ciò non toglie che sulla "Settima" la polvere era ormai spessa tre dita. C'è molto teatro in alcune scene, ok, ma non era quello il vero difetto da correggere. O, per lo meno, non il primario.

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  2. Grande editoriale del nostro direttore!
    Una cosa, che rimarco ancora, è che il modo di girare del regista, come ormai abbiamo imparato, è il fondamento e la coronazione di storia, personaggi, ambiente, ecc.
    Quindi, dovremmo dire grazie al Luchino, visto che questo poi, sarà il punto di partenza per arrivare a grandi film come Roma città Aperta, Sciuscià, ladri di biciclette, ecc ecc e a grandi registi italiani (ne abbiamo avuti poi altri registi così Grandi?) come De Sica, Rossellini, Fellini, Antonioni, Germi, ecc. Un altro vanto è poi che il nostro neorealismo è stato la base, conteneva idee, per movimenti importanti come Nouvelle Vague, e moltissimi altri in giro per il mondo.
    Eh, quindi per me...CAPOLAVORO.

    Ciao
    Albert Aporty

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  3. Scusate le continue intrusioni, ma sento il dovere di ricordare qualcuno che, chi sa perché, mi ha lasciato qualcosa appiccicato alle pareti di quell'organo là, durante la visione della pellicola. Appartiene a questo gran film anche e soprattutto il personaggio de "Lo spagnolo", carico di significati altisonanti, ampi e puri. Dentro la sua figura c'è un'utopia intera. Da pelle d'oca. Illusioni di libertà, amicizia, lealtà, anarchia...ed unità. Vaglielo a spiegare a "Falco" della Brigata Garibaldi. E' ancora vivo, ottantenne. Fategli vedere questo film che, casualmente, mostra sul video un po' di ciò che c'era oltre.
    "Un equivoco". Una morte non può essere un equivoco. Proprio due cose diverse.
    E che Elio Marcuzzo fosse gay, o no, non ce ne frega nulla!
    E la lettura in chiave omosessuale del rapporto tra Gino Costa (il protagonista, il Girotti) e "Lo spagnolo" la lasciamo a chi ha scritto già così tanto, da dover inventare...

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