L'infanzia di Ivan

Recensione LVII:
Settimana tra i santi di Stefano e Silvestro, la terra di mezzo è mezza vuota, temperature da steppa siberiana...Va bene, rivedo Andrej Tarkovskij. Qualche settimana fa già ci riunimmo in sala Sbargioff a guardare il primo lungometraggio del regista sovietico, "L'infanzia di Ivan", del 1962. Esordio col botto, ma non immaginatevi la classica bottiglia di spumante con le bollicine e magari un sapore dolce, lieve, schiuma bianca che consiglia festa, festoni e stelle filanti. Qui si parla di Vodka, si parla russo. Ed in russo-veneziano fu stabilito: "Виктория!". A lui il Leone d'Oro del 1962 (a pari merito con un italiano, chiaro).
A me questo film è proprio piaciuto. Mi ha entusiasmato nella maniera del regista di lanciarsi in inquadrature e movimenti di camera che causano vertigini. Due scene: l'inizio, in cui il giovane Ivan, non ancora sbocciato già strappato alla vita, sogna un passato irrintracciabile, la bionda madre dai bei sorrisi e rive assolate; il regista solleva, con un movimento formidabile della cinempresa, letteralmente il fanciullo e lo fa volare ancora un po' in quell'unico e ultimo spazio d'affetti (anche il risveglio del ragazzo sarà raffigurato dal regista in maniera magistrale, scioccante). Altra scena che mi ha colpito è ancora un sogno del piccolo Ivan (mentre dorme stremato all'arrivo nell'accampamento russo): rumore di gocce, inquadratura sulle gocce, e la camera ruotando verso il soffitto si scopre sul fondo di un pozzo, dalla cui cima madre e figlio guardano il fondo (verso la m.d.p.). Esteticamente perfetto e funzionale al racconto: il top.
La storia narrata dal film è quella di uno dei tantissimi innocenti la cui vita, in tempo di guerra, è condannata a restringersi in un lampo. Ivan, a pochi anni, ha dentro di sé tutte le età. Ha già visto tutto, sa già tutto. Può permettersi di dare ordini agli adulti, ancora di più, anche consigli (al suo compagno soldato consiglia di smetterla con quelle sigarette). L'amore, che per lui è rappresentato dal vestitino a fiori della madre, uccisa dai "pelapatate", amore che anche per i soldati adulti non va oltre un bacio dato sospeso, un abbraccio che sporge su di una trincea. Insomma, in ogni stramaledetta guerra, gli affetti non si posano; ad ogni età.
Le parentesi d'amore tra l'infermiera ed i soldati sono fredde (mi sono chiesto a lungo perché fossero state inserite), possono essere comprese solo con l'ausilio del senso di vuotezza, di impalpabilità con cui il film ci racconta un'infanzia (di Ivan) lacerata definitivamente, ma ogni vita nel senso più ampio. Vite alterate, la guerra che priva uomini uguali a tutti gli altri di provarla anche loro questa benedetta esperienza che è l'esistenza. Perché farsi tornare l'equazione, dicendo che quella E' un tipo di esistenza, E' vita...non è che è una menzogna. Aenorme, col dittongo.
Il bambino protagonista ("I 400 colpi", "Sciuscià" etc: che film prima che qualcosa si macchi...) recità con la maturità di un De Niro ottantenne.
Il bianco e nero, che siano le betulle, o gli interni dell'accampamento, o il bosco illuminato dai "razzi d'avvistamento", è padroneggiato eccome dal regista.
Non ha un finale tragico. Tutto è tragico. Film molto toccante.
(depa)

1 commento:

  1. Tutto corretto e come al solito emozionante, ma c'è un piccolo errore. Non era sala Sbargioff bensì Uaunder (eehh). Comunque cambia poco.

    RispondiElimina