Il tesoro della Sierra Madre

Spunto LIX:
La settimana scorsa (poca gente qui a Milano), in una sala Sbargioff da freddo siberiano, ha mosso i primi passi nel nostro Cinerofum un nuovo grande regista, del Nevada, classe 1906: John Huston. Nel 1948 il regista americano, dopo essersi ripreso un po' dalle brutture della Seconda Guerra Mondiale (a cui prese parte combattendo anche nelle Isole Aleutine (Alaska) e a San Pietro Infine (Caserta), confezionando in tali occasioni anche dei documentari), diede un colpo di telefono al padre, inviò un sms ad Humphrey Bogart ed imbastì questo bel film dal sottotitolo "Chi troppo vuole nulla stringe": "Il tesoro della Sierra Madre".
Doris ed il Tigre si commuovono nel sapermi da solo a casa, incapace anche solo a scaldarmi una tazza d'acqua calda, e compiono il generoso gesto di invitarmi a cena, in tavola prelibatezze sepinesi (il caciocavallo svetta intero su tutta la tavola)...che dire? GRAZIE.
Poi conicia il film ed in sala, sotto le coperte, non si muove più un filo d'erba. Il quinto lavoro del novello regista, che due anni dopo darà vita al celebre "Giungla d'asfalto" (1950) e, trent'anni dopo, ad un cult movie della mia generazione, visto e rivisto, come "Fuga per la vittoria" (1980), inizia a raccontare una storia in cui il bianco delle rocce s'incontra col nero di fucili, baffi lunghi ed animi corrotti...
Fred (un Bogart in ottima forma, barbuto e più credibile e folle che mai) gira ramengo in una Tampico d'oltre frontiera che offre musica e balli gratis, ma non cibo, alcol e lamette da barba. Ormai non si accorge nemmeno più di chiedere l'elemosina sempre allo stesso yankee (causa occhi bassi senza la forza di guardare i dirimpettai), non si accorge nemmeno di aver vinto alla lotteria (poca roba, circa 200 euro); la povertà illude lui, come altre generazioni di sbandati mariachi e a stelle e strisce, che la felicità sia solo a qualche giorno di cammino di distanza, piccone in mano, e vecchietto esperto in racconti ed estrazione oro a braccetto.
Lo spettatore rimane terrorizzato nel vedere, senza veli, la debolezza disarmante della psiche umana di fronte a quel minerale giallo luccicante. Qualche lungimirante avido meschino ha deciso che quello dovesse diventare, nei millenni, l'obiettivo supremo della specie umana, e quindi tutti lì, in fila, ad annullare giornate ed esistenze; allodole rincoglionite che non sanno neppure volare.
Meno male che c'è il vecchio Howard (padre del regista) a ricordarci quanto sia pericoloso ed inutile questo gioco, questa corsa; a ricordarci che non c'è polvere gialla che tenga il confronto con un'amaca tra natura e genti che ti rispettano.
Bellissima l'evoluzione della trama di ciò che accade sullo schermo e nella testa dei protagonisti.
Huston li muove tutti in maniera asciutta, senza sbavature, credibile: per questo la scazzottata nel bar viene accolta da Doris come "Una delle risse più belle che ho visto!" (in verità anche perché Huston un pugile lo è stato) e l'avida follia di Bogart viene sottolineata dal Tigre con "Minchia cumpa', 'sto qua è peggio di Shining!".
Il vecchio Walter Huston, due anni dopo, morirà per un aneurisma, ed allora rendiamogli un tributo, dedicando a lui le emozioni provate durante questa visione, conclusa con una delle risate più genuine e liberatorie della storia del cinema.
(depa)

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