I figli della violenza

Riunione LXXI:
Ieri sera in sala Sbargioff: Albert Aporty, Doris, Elena ed io. Luis Buñuel, nel 1950, fase messicana della sua produzione, girò "Los olvidados", tradotto più che liberamente in italiano con "I figli della violenza". Angosciantissima analisi sulla lotta tra poveri, il regista spagnolo imbraccia il neorealismo per narrare l'incapacità umana ad amare, l'impossibilità istintiva dell'uomo a non scagliarsi contro il vicino. E' di una forza unica questo film, in cui ragazzi di strada sono "educati" dalla violenza alla violenza, come unica forma di sopravvivenza; Buñuel, lo dice nella nota introduttiva una voce fuori campo, non vuole dare alcuna soluzione, solo mettere tutte le carte in tavola, mostrare come stanno le cose.
Certo, qualche idea sulle cause, il regista di Calanda ce l'ha e, più o meno velatamente, vuole condividerla con lo spettatore (coinvolgendolo, con quel gesto del lancio dell'uovo verso la telecamera, con cui il bambino Pedro chiede, se non una reazione, quantomeno un gesto di pudore: "Se proprio non volete fare nulla, almeno non statemi lì a guardare!" sembra gridare), ricordandogli, ancora una volta, che "per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti"; ecco in questo film, tutti sono responsabili della miseria che circonda questi ragazzi (non se ne salva uno, perché nessuno compie IL gesto), a 360°, compreso il 180°, il pubblico, tu.
Ma anche in questo film, di 4 anni più giovane dello "Sciuscià" di De Sica, quello che conta è il ritratto autentico di queste famigerate società che si compiacciono di se stesse, di ciò che chiamano progresso, di questo miglioramento delle condizioni di alcuni a danno delle condizioni, già misere, dei più. Questo è populismo, o demagogia, solo per chi proprio non ha tempo per volgere lo sguardo dal lato più sgradevole. Per altri è una doverosa denuncia ed un meritato pugno nello stomaco; perché qualcuno, anche se non il colpevole, deve pur sputare sangue, per una sorta di equilibrio universale...
Inoltre, come nel mitico "Sciuscià", il film si conclude, con immagini da sogno in cui la "nostra" piccola, grande vittima viene traghettata in sella ad un asino/cavallo verso la fine; è come se, per entrambi i registi, gli ultimi passi di queste esistenze non fossero più orchestrabili da chi dovrebbe farlo: ormai zattere alla deriva.
Fotografia impeccabile, sceneggiatura incalzante, Buñuel indubbiamente neorealista, con il solo personaggio del suonatore da strada cieco che riecheggia surrealismo (e che s'imbratterà le ali, cascando rovinosamente al suolo), pur coi suoi classici flash onirici (qui, "al sangue"), da vedere assolutamente.
(depa)

1 commento:

  1. Anche a me ha ricordato "Sciuscià" e daltronde l'argomento è quello.
    "Certe volte bisognerebbe rinchiudere i genitori, non i figli", "Andrebbe rinchiusa la miseria, non i ragazzi".
    Un film potentissimo!
    Sottoscrivo la recensione di Depa e l'invito a guardarlo assolutamente!

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