Extra: Le maschere di Bergman

Ieri sera il 'rofum era distrutto. La sala Uander ormai è da monumento, Stalingrado della Settima, alza un bandierone di Ingmar Bergman: "Persona" del 1966; e resiste.
Film impossibile. Film sul volto come espressione, non già dell'inconscio, neppure delle proprie emozioni, ma espressione del baratro. E' un gioco pericoloso quello che ci propone il regista svedese, si rischia. E grosso.
Un'attrice, durante un'"Elettra", si blocca: per un attimo ha capito che c'è un abisso insuperabile tra l'essere di ciascuno ed il suo apparire. E' sgomenta. Le viene anche da ridere. La propria Immagine Conosciuta è pura finzione, tradisce da sempre l'inconscio di ciascuno. Vengono le vertigini ad accorgersi che si è deragliati in qualche punto del nostri trascorso; ma quando precisamente? In seguito a quale fatto? E se fosse così dal nostro primo gemito? Davvero, meglio non accorgersi, non approfondire: c'è solo da perdere di fronte a verità che sono scombussolamenti. Bergman riesce in qualche dialogo (in particolare, secondo me, tra la paziente e la direttrice della clinica) a lasciare di stucco lo spettatore, c'è sperimentazione pura, audio, video, della parola, del montaggio: tutti i sensi chiamati a rapporto per smascherare gli infiniti giochi delle parti perpetrati nella storia dell'uomo. Tutto inutile, perché l'uomo forse non può comprendere. Esattamente come me nei minuti finali, con la testa ricoperta di asterischi e cancelletti, mi chiedo che diavolo vuol dire il maestro svedese...ma mi gusto anche una carrellata che rimane negli occhi: le due ragazze che si rincorrono sulla spiaggia incarnano il ritmo di chi corre verso una liberazione. Che questa possa essere solo quella assoluta? Quella ottenuta col radere al suolo di ogni artificio dei comportamenti umani? Cioè la morte o, quella che chiamano, la follia.
(depa)

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