Blow up

Occasione LXXVII:
Ieri altro Antonioni, altro percorso in quei meandri che non sono percorsi né da globuli né da neuroni, quelle vie lattee invisibili, percorse con accanimento, ogni giorno, da tutti gli esseri della terra; creuze dell'anima, a volte in discesa, altre in salita, arricchimento e affaticamento fattori comuni che vanno sempre e comunque a braccetto: "Blow up", Palma d'Oro 1966.
L'esteta Antonioni, con la fotografia di Carlo Di Palma, toglie il fiato; dai colori tenui e sfumati, desertificati e desertifici, che attanagliavano il reporter Locke, si è passati a quelli sgargianti e contrastanti della Londra snob, dei vestiti bicolore anni '60. Questa volta, il baratro su cui l'uomo incombe, quel red-brick londinese che prosegue all'infinito a murare ciascuno noi, è causato, forse, non da un vuoto dentro, ma dal "troppo" dentro, da un inutile a capirsi: per il fotografo innamorato di sé, gli attimi di solitudine sono molti, ma riempirli con eliche enormi e, seppur facendo "cattivo viso a buon gioco", melliflue sbarbine, non è costruttivo, anzi. Si rischia di perdere la percezione della realtà, tanto vale, dismettere la maschera e riappropriarsi di se stessi, se possibile.
Questo film non è un thriller: Mi piace pensare che se, dopo l'ultimo ciak, qualcuno avesse chiesto al regista ferrarese "Eh però il morto c'era! Le foto...quindi è vero!", Antonioni avrebbe risposto: "Quale morto? Ah sì. Non mi pongo il problema. Non è questo il punto...non è questo". L'unico desiderio di verità che può essere soddisfatto dallo spettatore è quello di sapere, ad ogni inquadratura, quale sarà la successiva. Viene la febbre all'idea di scoprire quale sarà (e come sarà) la location della prossima scena; Antonioni, forse, lo sa e costruisce tutto alla perfezione: il protagonista telefona all'amico per svelargli il mistero, concludendo: "Dove sei? Ok, ok, ti raggiungo io!", il pubblico freme per capire, da quello studio fotografico, adatto e preparato, a quale ambiente Antonioni si dedicherà, dove disporrà, con sommo senso estetico, uomini e paesaggi, oggetti, alberi, fiumi, alberi e montagne! Perché, se mai capitasse, che Antonioni scendesse di corsa, a sorpresa, per strada, tutto pare rispondere ad indicazioni (necessità?) estetiche; senza cadere, qui sta il talento di questo grande regista, nell'artificioso, nel falso (che appartengono, semmai, all'essere umano, reale o del regista). In questo caso si finirà in un club dell'underground londinese...e che sequenza!
La chiave di volta nella scena finale: quel "sentire" la pallina da tennis apre uno squarcio nel percepito. Dell'attore e del pubblico. Non è solo distanza tra essere ed apparire, tra "dentro" e "fuori". Ma è soprattutto distanza, tutta "nel dentro", tra ciò che si è e ciò che si è un attimo prima e dopo. Distacco tra sé e sé che, amplificato, si riverbera sul nostro rapporto con l'"altro". In questo momento, non resta che accettare il gioco, e lanciare quella pallina...dal baratro siamo usciti, grazie ad una scaletta chiamata "compromesso".
Non riempire i nostri giorni o riempirli di nulla, portano allo stesso risultato.
Unico Michelangelo Antonioni.
(depa)

1 commento:

  1. Editoriale stupefacente, e film capolavoro. Ieri, dopo aver letto le parole del nostro "direttore" ho deciso di riempire questa lacuna. E che lacuna!
    Un film che ti proietta dentro una storia, che va viaggiare l'immaginazione a ritmi vertiginosi con un avvicendarsi di sequenze fotografiche sconcertanti per raffinettezza e comunicazione. Tic toc tic toc tic toc, tempo che scorre come se fosse il tuo, che ti accompagna e ti porta per mano in un luogo di riflessione. Il mio, il tuo, il vostro, il luogo di tutti. Distanza infinita tra essere mio ed essere io, inteso come percepito dal prossimo. Solutidine, passione, voglia di inseguire le cose che ti rendono vivo. Gli altri non esistono, sono solo contorno. Essenziale, crudo e crudele, vero.
    Perfetto, una mancanza imperdonabile non vederlo.

    Albert

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