Extra: Malick dietro a una farfalla

Ciao 'rofum. Inizia il mio viaggio, piuttosto breve peraltro, nell'opera del regista che si è permesso di prendere a calci cent'anni di storia del cinema, con quel film che ha ridotto a zombie alla Romero migliaia di spettatori (giuria di Cannes '11 in primis), convincendoli che dettagli su foglie e staccionate, panoramiche su campi aperti e mandrie in libertà bastino a determinare la qualità di una pellicola. Bene: i sintomi di questa distorta ingenuità sono riscontrabili già nelle prime opere, a quanto pare: "I giorni del cielo" di Terrence Malick, 1978.
Come ormai saprete (o avrete intuito), sono entrato in sala più che circospetto, affamato di frecce con cui argomentare i miei assalti al regista di Waco, innamoratissimo del "proprio" Texas. Visione falsata, quindi? Aspettate un attimo. A mio parere, questo film è di gran lunga superiore a quella ciofeca che è "L'albero della vita". Però, come suggerito dal titolo dell'Extra, questo "Days of heaven" conserva già, in nuce, la tendenza del regista a mettersi a rincorrere una farfalla...non accorgendosi di cadere, così, in uno degli errori più grossolani che possa commettere un apprendista ai primi esperimenti con la m.d.p.: la ricerca di un'estetica che, nemmeno fine a sé stessa, risulta inutile, fine.
Attenzione, però: il film, privo di stupidi e urticanti giochini video, è di notevole impatto visivo, è vero; la fotografia è ottima (dello spagnolo Almendros), e Malick mostra una stretta confidenza con la cinepresa; indubbiamente sa girare, altrimenti sequenze come quella (nella primissima parte del film) del treno che trasporta i braccianti verso i campi, con la telecamera che si sposta in senso opposto, non risulterebbero così accattivanti, poetiche; nella scena in cui Richard Gere (qui, al suo quarto film, un'ottima prova) scappa tra alberi e canne, mostra quell'abilità nell'"inseguire" gli attori che diromperà ne "La sottile linea rossa"; ma sono molte le sequenze su cui è piacevole lasciar andare lo sguardo. Ecco: che il regista texano abbia una propria poetica, è emerso. Che spesso non la sappia arginare nei 35 mm, anche. Quantomeno, in questo film, succede a sprazzi (non per due ore e mezza!...). Quindi, avvolgendo tutto con colori da Sole tiranno e disperdendolo con spazi che annichiliscono l'individualità, riesce a ricreare un'atmosfera suggestiva e coinvolgente (un "certo" Morricone a supporto). Ma proprio non riesce, attirato da quella girandolina che galoppa a tutta velocità, a esimersi, manina all'insù e sguardo perso, dall'inquadrare: cavalli con uno sfondo di fiamme infernali, sciami di spighe stressate dal vento, silhouette di lavoratori sul crinale arrossato dal Sole che scioglie le righe, trattori anni '20 che tracciano rette infinite...
Poi, quella dannata bibbia sempre sul comodino: fosse finito prima dell'invasione delle cavallette sarebbe stato da due decimi di voto in più. Ma almeno, questa volta, non ci sono voci fuori campo affidate a testimoni di Geova...
E' un buon quadro sugli immensi campi di granturco impolverati di fatica e d'illusioni, in cui i protagonisti si stagliano preziosi, ma dal quale bisogna saper essere lesti nel voltare lo sguardo quando a far capolino è, ormai marchio di fabbrica, una piantina che stiracchiandosi si prepara alla vita.
Terry, su, dai...Terrence! Torna qui! Basta giocare, lascia perdere la farfalla! Andiamo a casa!
(depa)

1 commento:

  1. mi ha salvato ieri dal GrandeFratello-VIP, sì e no, nonostante il risveglio dei sensi

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