"Sunrise: a song of two humans"

Intima LXXX:
Non può che essere commentato subito. "Aurora: canzone di due esseri umani", film del 1927, del regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, suscita emozioni che non possono essere lasciate libere, devono essere agganciate da lettere che le tirino giù, a spiaccicarsi su carta, sia pur digitale, bit bianchi, bit neri, a tener ferme quelle "cose" che si sono succedute per tutta la durata di questo indimenticabile film.
Già coi titoli di testa e con le prime didascalie si percepisce la poesia che permeerà la pellicola. La prima inquadratura della stazione, le immagini in dissolvenze incrociate (utilizzate in abbondanza ma senza alcuna ingenuità), la m.d.p. che si alza sopra la barca e si avvicina alla riva, WOW!, Murnau, complice un Hollywood che gli permise qualcosa di più, la mette dove vuole, la sposta come sa. Piani sequenza al sapor dei giorni d'oggi (la cinepresa che segue La Donna di Città mentre si avvicina a casa del Marito, oppure quando riprende Il Marito che supera la staccionata e raggiunge la pericolosa "femme fatale") lasciano a bocca spalancata. Sovrapposizioni come quella delle attrattive della città che sovrastano i due amanti stesi sul prato al chiaro di Luna (con la Donna di Città che sembra tarantolata!) sono degne di rimanere lassù, per sempre.
Il regista, comunque, non perde tempo e ci butta gli eventi in faccia, "poco da soffermarci su questi piccoli dettagli" sembra dirci, "non avete idea di cosa ci sia dietro ad un gesto, soffermatevi piuttosto sulle emozioni..." pare suggerirci. Ed è così che ci accorgiamo che Il Marito (George O'Brian, bravissimo) di questo film è in preda dei sentimenti, succube di una passione che ai più sembrerà esagerata, finta, ma non sono d'accordo. Il Marito non ucciderà la propria moglie, ci penserà sì, ma non "procederà". Quindi? Si apre un bianco e nero fosco sulle nostre emozioni, sulle nostre reazioni, quanti di noi pur fermandosi in quel punto dove il ritorno c'è, ne immaginano un altro senza via d'uscita?
La scena in cui La Moglie è resa euforica dall'illusione della gita in barca è di una forza espressiva unica (Janet Gaynor mi ricorda, per tenerezza, Gelsomina, la povera compagna di Zampanò), quella in cui il cane annusa un futuro prossimo di morte (e, ancora di più, quando è riportato indietro dal Marito) strizza le budella...Lo sguardo della Moglie quando le si para davanti il vuoto, l'abisso dell'orrore, quell'odio che non ha nulla a che vedere col loro amore unico! La sua fuga da lui, da tutto ciò che ha! Il rimorso che schiaccia il corpo del Marito tutto, senza possibilità di respiro o di risoluzione. Poi...
Davvero viene da raccontare ogni scena (quella del maialino! Dramma e ironia shakerate magistralmente). Mi fermo, voglio che vi prenda una desiderio irrefrenabile di vedere cosa fu in grado di girare questo regista della Renania Settentrionale (dissolvenze oniriche, campi lunghi che sono quadri davanti ai quali passare un pomeriggio intero). L'espressionismo tedesco straripa a Hollywood e ne sfrutta i mezzi, il risultato ve lo lascio immaginare (impossibile).
L'ineluttabilità del destino può, dopotutto, essere incrinata, ma il perdono da una parte, il rimorso dall'altra, soli non potranno nulla; fondamentale è l'amore di per sé, inteso come summa dei buoni sentimenti, dei gesti giusti. Messaggio forse un po' bacchettone (le città che inebriano e aggrediscono più che dar spazio e felicità) ma se un vecchietto rompipalle, e non è il caso del nostro, scomparso a 42 anni in un incidente stradale, mi confeziona un film così, mi battezzo qui, ora.
Imperdibile.
(depa)

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