Colazione da Tiffany

Recensione LXXXIV:
Il Cinerofum vuole capire. La nostra iniziativa si è spesso interrogata sulle cause di un successo cinematografico che pare essere arrivato (a causa, forse, dell'evidente maturità raggiunta dai mestieranti d'oggi nel campo del merchandising), solo negli ultimi anni. Schiere di affannati a nominare Audrey Hepburn e Tiffany senza sapere chi o cosa siano, di corsa a comprare un gadget con la filiforme stella hollywoodiana (nata europea, eccome) che fuma la sua "siga" a distanza, senza aver visto "Colazione da Tiffany" (1961), senza sapere chi sia Blake Edwards né Truman Capote...scherzo dai, tutti hanno visto il film e sanno chi ne siano gli artefici.
Il film, sin dalle prime sequenze, comunica l'attenzione del regista, sempre elevata, per i dettagli: le inquadrature sono pe(n)sate (per esempio, nelle frequenti scene per le scale, la cinepresa sarà posta in vari punti, molti dei quali audaci), i volteggi della m.d.p. risultano complessi quanto azzeccati (meraviglioso quello in cui, tra grattacieli roteanti, i due protagonisti chiacchierano per un'avenue newyorkese, da vertigini); insomma, Edwards Blake con la cinepresa ci sa proprio fare.
Il secondo elemento che emerge è, se non l'originalità in valore assoluto della trama (donna nulla facente in eterno avvilente incedere), il taglio che viene dato alle vicende narrate; in questo concorrono lo stile del regista e gli interventi sul soggetto originale da parte dello sceneggiatore (Axelrod). Cosa intendo dire? Che le inquadrature e lo svolgersi degli eventi sono abilmente architettati mostrando, sì, il luccichìo di una passeggiata tra vetrine ingioiellate e il frizzante ritmo di party improvvisati, ma anche lo stridere di questi giorni che, in quanto vuoti, non possono coprire il passato della bella gatta Holly, lasciandola senza alcun calorifero su cui posarsi, sprovvista di calore umano autentico (difficile a credersi, tengono più caldo dei vecchi giornali che i "verdoni"). Le differenze tra il soggetto e la sceneggiatura (consultabili in rete) sono marcate e, a causa di queste, non sono mancate le polemiche tra gli autori; polemiche, a mio modo di interpretare, incomprensibili: le distanze tra le due stesure contribuiscono (in questo caso) ad attribuire valore autonomo ad entrambi i lavori.
Ma il punto forte, in effetti, risiede nel personaggio che regìa, autori e, soprattutto, la stessa Audrey Hepburn, hanno saputo mettere in piedi. Piccoli dettagli (che diventano grandissimi!) ed espressioni fugaci sottendono una lotta interna faticosa e già persa. La Holly sbarazzina è meno coraggiosa di quanto sembri, il nemico non viene mai guardato negli occhi, i diamanti ad accecare lo sguardo, lo champagne la mente. Tutto pur di non affrontare se stessa: e la reazione è travolgente, la Hepburn, seppur introversa nel privato, travolge tutto il set, tipo Tazmania, e si carica sulle spalle tutta la credibilità e, quindi, la potenza della pellicola. Per lo spettatore, tutto in lei è evidente, Ci dice "bene!", ma sente "male"; non ha bisogno di nessuno ma le servirebbero tutti. A cercar di distrarre il pubblico, la personalità di Holly: quella "serie ininterrotta di gesti ben riusciti" che testimonia in lei "qualcosa di splendido" che, comprando un bel souvenir très N.Y.C., qualcuno vorrebbe portarsi a casa easy; dimenticando che, sotto quel collier proibito, c'è una puttana sola e disperata che, non è che non voglia, ma non sa!, dare un nome al proprio gatto.
In conclusione: da vedere, poiché questa è una classica commedia anticonformista americana. Parole non contraddittorie, nel cinema, anzi.
(depa)

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