Extra: Quell'oscura chitarra che suona lei

Sala Uander, ieri sera, film d'autore, Io, Elena. Solita combinazione iniziale, dalla quale, la magica macchina cinema, mescolato il tutto, questa volta ha generato: "Quell'oscuro oggetto del desiderio", Luis Buñuel, 1977. L'ultimo film del visionario regista spagnolo non delude le aspettative e, tra simbolismo inesistente e concreta conoscenza dell'incantesimo con cui una donna può incatenare a sé un uomo, lascia lo spettatore intontito e affascinato, punti interrogativi sulla testa, alcuni dei quali sapientemente rimossi all'istante, altri che rimangono lì...
Film difficile; più di quanto possa sembrare; hai voglia a dire "da vivere come un sogno"; troppo schematiche le nostre menti che, nell'era della ricerca su Google, tutto vogliono capire prima di passare al dilemma successivo. Quel topo catturato (dopo aver accennato al matrimonio)? Il maiale in braccio alla donna? Il pizzo insanguinato (scena finale)?
Film facile; più di quanto possa sembrare; ha senso cercare un senso terreno in un film che pare, come tutta l'arte del suo autore, provenire dal pianeta Surreale? Se proprio vogliamo, in questa pellicola viene descritta l'indescrivibilità di quel filo invisibile ma indistruttibile che può venirsi a creare tra due individui; la Natura ha giocato proprio un bello scherzetto a chi nasce in questo mondo: non si vorebbe ma si vuole, ci si racconta che si potrebbe ma non si può. E', invero, una vera e propria forza oscura, l'attrazione sessuale che crediamo di poter governare. Ecco, tipo quella di Guerre Stellari: o sei un Maestro Jedi o c'è poco da fare, l'unica possibilità è la fuga, col pensiero, con lo sguardo o, nei casi più gravi, con le gambe.
Ma abbiamo a che fare con l'ultimo Buñuel, non contaminiamolo coi nostri rozzi, banali, materiali ragionamenti; assaporiamone, invece, l'originalità, la freschezza, l'ironia, l'irrazionalità anche; la potenza artistica di un'opera a sé stante che, unita alle altre del regista aragonese, ci restituisce, compatta, una figura d'artista simile a quella dei grandi pittori, scrittori, poeti, con caratteristiche proprie ben delineate, dal lessico (in questo caso, cinematografico) unico e, perciò, riconoscibilissimo.
E' stata la seconda volta che ho visto questo film e, in entrambi i casi, non mi sono accorto della "doppia interpretazione" della protagonista femminile (Elena sì, in quanto donna?): 25% sono miope, 25% sono distratto, 50% di fronte a un Buñuel non mi chiedo. Lungi dal cadere nel banale "una fa la donna accondiscendente, l'altra la refiosa", il regista scambia per spiazzare, per non dare punti di riferimento che, lui ne è certo, hanno già alterato abbastanza la nostra percezione dell'arte. A costo di passare per astuto deficiente, sono soddisfatto del lavoro di "non realizzazione" della mia codarda mente.
O si guarda questo film come seduti di fronte a un'opera di Dalì, cercando il limite massimo concesso alla ragione per poi lasciarsi andare giù, oltre il crinale, verso la "Valle de los surrealistas", oppure si dirà, comodamente sdraiati sul divano: "Buñuel non mi piace".
(depa)

1 commento:

  1. ...a parer mio la scelta di far interpretare a due donne differenti la stessa parte, altro non è che la "firma" del regista.
    Film a parer mio troppo normale (passatemi il termine)per non dare un pizzico di surrealismo alla pellicola.

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