Extra: tributo fantastico, Woody

Allora, dovete capirmi: non è cosa da poco scoprire di potersi innamorare una seconda volta. La prima quando, piano piano, presi coscienza di ciò che stava scorrendo davanti ai miei occhi: il primo film che vidi. La seconda, ieri. Arrivato a casa con gli uccellini nelle orecchie, dopo aver visto "Le Havre", ci mancava anche che Woody Allen mi stendesse definitivamente col suo dolcissimo tributo alla magica macchina del Cinema: "La rosa purpurea del Cairo", del 1985, è un prezioso gioiello che fa ridere (strano, eh?, per un film dell'autore newyorkese), commuovere e fantasticare, sì, soprattutto volare, sopra le nostre piatte vite tridimensionali.
Il film inizia e l'occhio di Woody Allen sulla città americana (bar con bancone e grembiuli, stracci, friggitrici e matite sulle orecchie) è elegante e attento come sempre. Poi Mia Farrow (non la ricordo così brava, calata alla perfezione nella parte) entra in quel cinema per l'ennesima volta...e lo spettatore è spiazzato (molto più del pubblico nel film). Già sessant'anni prima, Keaton ci mostrò come potesse essere infranto quel rettangolo che separa finzione e realtà ("Sherlock Jr."/"La palla numero 13") ma, mentre in quel caso lo stupore era solo del pubblico in sala, nel film di Woody tutto il cast è chiamato a occuparsi della questione (e non solo gli attori del film nel film ma anche quelli al piano "di sopra", nel film), e mentre la sala Uander è lì che aspetta una "caduta" ingenua, una forzatura stonata, niente, passano i minuti ed il film invece che proseguire alleggerendosi, acquista corpo e signifato. In quest'aspetto il film sorpende; inizia come un gioco, si pensa "Beh, Allen che gira una sorta di 'Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi', le ho viste tutte...", e invece, ci frega e realizza un film profondo e accorato, vero e proprio plauso alla sua arte, con cui ha sognato e permesso di sognare. Accattivante svolgersi degli eventi, frasi casuali pressoché inesistenti, migliaia di ettari di terreno libero per la nostra fantasia, la potenza del cinema a 360°.
Una favola solidissima per mostrare la fragilità della separazione realtà-finzione, dentro di noi; finale che è un fiocco che sta su e rende perfetto l'insieme delle immagini e dei ricordi che terremo della pellicola. La macchina dei sogni è stata inventata: non aiuta nella vita, ma la cambia!
(depa)

2 commenti:

  1. Sempre gradevoli i film sul cinema per un amante della Settima, ma in questa pellicola la geniale creatività di Woody Allen va oltre. Lo spettatore viene proiettato in una situazione surreale, resa poetica dal regista, nella quale il mondo reale e la “fabbrica dei sogni” sono sullo stesso piano e quindi messi a confronto. “La gente reale vuol vivere nella fantasia e quella inventata nella realtà”, ma alla fine Cecilia fa uno sbaglio e le rimane “solo” il grande sollievo di poter sempre contare su quel magico grande schermo per poter sognare e dimenticare così per un momento le difficoltà della vita reale.
    Concludo quindi questo commento manifestando una percezione diversa della “morale finale" rispetto a quella di Depa, in compenso non trovo miglior modo di definire questo film: “profondo e accorato, vero e proprio plauso alla sua arte… fa ridere, commuovere e fantasticare…”.
    Woody continua a stupirmi, ogni suo film che vedo, sempre di più.

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  2. Tratto da "Woody Allen - Quarant'anni di cinema" di Pier Maria Bocchi (2010, Le Mani):
    "La storia è padrona delle persona: La Rosa...esce a metà degli anni '80, non è una celebrazione del cinema classico, né un inno di giubilo per la tanta ricercata magia del cinema, eppure spettatori e critici si entusiasmano per l'apparente struggimento di un immaginario cinematografico passato ma resistente, senza accorgersi che si tratta di un rito funebre, dove il cinema muore sotto i colpi di una realtà che non ammette repliche...[...]"

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