Extra: Il grande Gatsby III°

Ieri pomeriggio, all'"Oberdan", sono andato a vedere la trasposizione su celluloide di un romanzo che, sei anni fa, mi emozionò molto; "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald, del 1925, ha avuto, sino ad oggi, tre versioni cinematografiche (una quarta dovrebbe uscire quest'anno, diretta dall'australiano Baz Luhrmann): una "muta" del 1926, andata persa; la seconda (del 1949) dell'americano Elliott Nugent; la terza, di cui parlerò in questa recensione, è datata 1974 e diretta dal regista inglese Jack Clayton. Entrato in sala, quindi, con la voglia di continuare il sogno di quell'elegantissimo e inquieto signore del primo dopoguerra, con lo sguardo sempre rivolto allo stretto di Long Island e le spalle ai suoi immensi prati curati e cosparsi di sconosciuti ubriachi e danzanti...la pellicola non mi ha deluso, il tuffo nel romanzo è avvenuto, tra strass luccicanti e dolori nascosti.
Il regista, Jack Clayton (1921-1995; tra l'altro, oggi sarebbe il suo compleanno), ha realizzato sette film in quasi trent'anni di carriera (quindi dovrebbe essere considerato un grandissimo regista, moda malickiana...) e non è certo annoverato tra...gli annoverabili; però, sin dai titoli di testa, si capisce che su questo "Il grande Gatsby" punta molto (prima co-produzione sua e U.S.A., Paramounts) e che il romanzo l'ha letto e, credo, capito. La m.d.p. viene mossa solennemente sui dettagli; i filtri e gli effetti luce rendono le argenterie e le sontuose finestre più intoccabili che mai, tutta la pellicola è ricamata con le iniziali del grande James "Jay" Gatz; la sua prima comparsa è allestita con maestria e, quando Robert Redford, più sciccoso che mai, viene presentato al pubblico, quest'ultimo rimane involontariamente affascinato da quella figura che emana soldi e potere, ma non solo. Dentro di lui dev'essere accaduto qualcosa di immensamente grave se tutto ciò che lo circonda è come se non esistesse. E' come se quella folla che lo venera, lo ama (almeno sino a quando ne vale la pena, dopo la sua morte "chissenefrega!"), scomparisse, lontana...invisibile.
C'è anche qualcosa di originale nel tocco di questo regista semi-sconosciuto. Primi e primissimi piani, zoomate inconsuete (che ricordano un po' le serie TV americane, tipo "La casa nella prateria", un po' i film comici USA, come i primi "Woody"); in realtà gli spazi della baia davanti a Long Island, compreso il prato da sogno di Gatsby, non vengono immortalati, come a sottolineare che non ci si debba perdere, come gli invitati alla festa, tra gli addobbi e la musica diffusa; il focus dev'essere lì, nell'uomo e nei suoi sentimenti, per superficiali ed ingenui che siano. Certo, non si capisce come uno "stiloso" e sveglio come Gatsby possa farsi abbindolare da un'oca giuliva come Daisy (tra l'altro una Mia Farrow da prima pagina), che ebbe schiere di ufficiali tra le cosce, ma l'amour, si sa...
Ma, in definitiva, la trama regge proprio grazie alla capacità del regista, dell'addetto alla fotografia, dello sceneggiatore (un "certo" Francis Ford Coppola, un anno dopo il suo "The Godfather") e degli attori (Radford e Farrow, coppia dell'anno!, ma anche Nick "Sam" Carraway) di ricreare ciò che è il vero fulcro del romanzo: l'aura di fascino indefinibile emanata dal mitico personaggio di Gatsby (che, per questo motivo, non può essere fatto sedere sul divano di uno psichiatra; dev'essere inaccessibile).
Alcune trovate interessanti (la tenda che copre e scopre lo sparo finale; il bacio riflesso nella piscina, con dissolvenza introdotta dai pesci rossi), altre meno (dissolvenze incrociate e altri effetti ottici, sovrapposizioni di visi rotanti) un po' scontate, ma è anche vero che la corda non può essere tirata troppo dalla parte della stravaganza, quando si parla di un soggetto di questo tipo; per questo non capisco il Morandini quando definisce il film "imbalsamato, specie negli inamidati personaggi principali", cosa doveva fare Clayton? Chiamare "Il molleggiato" a ballargli "Movimento di rock"? Tutto ciò che circonda J.G. dev'essere fermo nel tempo, altero e vuoto, di cera, perché solo "una bella stupida deve scegliere il colore che vuole".
(depa)

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