La Sardegna insegna, l'uomo no.

Il Cinerofum prosegue il filone "Fratelli Taviani" e, accolta in sala Alda Merini anche Elena, si appresta a vedere un film che i "due registi in uno" girarono nel 1977, permettendo loro di vincere la Palma d'Oro: "Padre padrone". Giurìa presieduta da Rossellini: forse i registi si accorsero del "regalino" e restituirono il favore chiamando, due anni dopo, la figlia del Mostro Sacro del cinema italiano per la loro successiva opera, in cui, invero, Isabella si guadagnò per bene la pagnotta. Come per quella, il mio giudizio (si era capito?) è diviso a metà anche per questa pellicola: prima parte che ricorderò a lungo, seconda parte...anche, ma per ragioni di segno inverso.
Poiché, se nella prima parte della pellicola è una goduria seguire il racconto della dura vita dei pastori sardi, resa ancora più insopportabile dalla stupidità dei "padri padroni" (sparsi comunque in egual misura su tutto il globo ipocrita e ignorante), e accompagnare la crescita di Gavino che dovrà imparare dalla Terra, quella sì vera maestra, severa ed affettuosa, a convivere con le campane del silenzio e con l'assenza di sconti lontano dalle boutique; nella seconda parte è avvilente osservare come tanta grazia possa essere gettata al vento (non quello che segnala la Grande Quercia, ma quello che porta alla discarica delle bobine).
Io posso capire che, forse, i registi, tra peti, pernacchie, risate buffe e "pecorine" mostrassero da subito di voler "allentare la presa", alleggerire il clima cupo della Barbagia (se, al contrario, l'intento non fosse stato questo, basti loro pensare che, pubblico impreparato o no, la sala se la ghignava alla stragrande, anche vedendo il piccolo Gavino rincorso!...), ma il cambio di tono dal momento in cui i ragazzi sassaresi, stufatisi, decidono di intonare un inno alla futura Germania che spezzerà le loro catene patriarcali, lascia sgomenti; il film perde il filo, rotola a valle, un po' facendo il buffone (inspiegabile la "chiamata alle armi" di Nanni Moretti), un po' esibendosi in una trenodìa che, quindi, appare fuori luogo.
Certo, l'ignoranza può, realisticamente, generare situazioni comiche, però qui la sinusoide ha una fase troppo breve, ravvicinata; la confusione emerge tra risse furibonde, versi greci, carri armati, musiche classiche, battute non abbastanza morettiane, e rivendicazioni rivoluzionarie.
Concordo: come dicono loro stessi nel finale, le parole sono involucri sgonfi se pronunciate senza conoscerne il vero significato, senza averle tastate. E se il pubblico in sala, alla fine, ride e ride, se non gli è stata data la possibilità di toccarle...il regista qualche colpa ce l'ha. Eppure sarebbe bastato, chessò, che Gavino si fosse buttato dalla Torre di Pisa (citando, quindi, l'amatissimo "Germania anno zero"...), prendendosi quelle libertà che Gavino Ledda, nelle ultime (dolcissime, quelle sì!) scene concede elegantemente ai registi.
Una frase come quella sulle uniche due capacità dei patriarchi e sulla loro (in)consistenza ("Il vostro corpo è il pecunio…la vostra aria l’ubbidienza.") non doveva essere sprecata così. Peccato.
(depa)

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