Triangolo a San Gimignano

Questo pomeriggio il Cinerofum si è recato allo Spazio Oberdan per approfondire un po' il discorso cinematografico instaurato dai Fratelli Taviani, autori freschi di standing ovation berlinese, per il loro apprezzatissimo "Cesare deve morire" (a ragione, a mio modo di pensare). Nel  1979, Paolo e Vittorio Taviani, realizzarono "Il prato", un film a tratti piacevole nel suo liricismo onirico e irrequieto, in altri inspiegabilmente stucchevole per un sentimentalismo che gioca a mosca cieca.
Sono d'accordo col giudizio scritto dal Morandini (magari una stellina in più, viste le 4 a "Padre padrone"...), e credo che il film abbia buttato via un'occasione niente male. Perché, nella prima parte, "Il prato" convince, tutti sembrano fare il loro: i due fratelli di San Miniato si comportano egregiamente rappresentando, anche solo mediante una finestra con vista, prima un'oppressiva città grigia-smog e arancio-bus (Milano), dall'altra una borgo medievale pronto a ridare forza vitale (San Gimignano). Ma è chiaro che il tema non è quello banale del "Ragazzo delle via Gluk", piuttosto è il viaggio, col suo strappo delle radici, che spesso può rendere più limpida un'acqua esistenziale fattasi paludosa. Comunque, a parte qualche ghirigoro sulla volpe che si aggira nei campi, il film scorre sognante e fiabesco, un po' per l'abilità dei registi, un po' per la maestrìa di Ennio Morricone, un po' per il viso d'angelo dei due protagonisti (Saverio Marconi, che pare un Jerry Calà in versione hollywoodiana, e Isabella Rossellini, debuttante, entrambi molto bravi).
Dire che il momento più alto del film è quello del finale di "Germania anno zero" è dire il vero, altresì il film lo impacchetta a meraviglia (non ce n'era bisogno, ma l'arte non deve seguire le necessità). Le immagini della folle danza istigata dalla "pifferaia magica" sono perfette, da bocca aperta, realisticamente teatrali; così come alcune passeggiate di gruppo alla "Quarto stato" (meno kolossal) capitanate da un Michele Placido più simpatico e disinvolto del solito. Il neorealismo ai due registi in tandem piace e lo conoscono bene: la sera dopo la caccia alla volpe, i bambini nella cascina durante il temporale...
Però il film, nel momento in cui lo si sarebbe potutto applaudire proprio per aver "surfato" sul crinale dell'onda del banale sentimentalismo, cade in acqua. Invece che terminare con la maestosa apparizione del Duomo dalle scale della linea rossa della metro...decide di raccontare una telefonata inutile e, peggio, melensa; di perdersi in una mezz'ora vuota, fatta di momenti prevedibili e...scadenti da un punto di vista artistico (il ritorno, il cane che sta male), più un episodio il cui significato devo ancora cogliere (quindi, con ogni probabilità, mea culpa), mi riferisco al morso del cane (con conseguenti sequenze di letto di morte e di corsa in ospedale in elicottero e le urla!...qui le braccia cadono, anche se le immagini aeree esigerebbero ben altro). Perché? Che senso ha avuto proseguire? Forse per tirare le somme tra padre e figlio? Si poteva fare in maniera più asciutta.
Da vedere perché, sino a quando Isabella "Eugenia" Rossellini si riprende dalla botta in testa, ci sono sprazzi d'ottimo cinema e di poesia...poi, l'unico motivo per cui vale la pena resistere è quello di poter constatare che la linea verde della metropolitana, 35 anni fa, era esattamente uguale ad oggi.
(depa)

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