"C'est moi, Lola!"

Ieri sera, il Cinerofum, seppur in versione trasferta, ha accolto nella sua iniziativa un regista di cui si è parlato poco ma che rappresentò, assieme ad altri (Malle su tutti, poi Colpi, Franju, Rozier, Vadim), quel frizzante ambiente parigino che fece da contorno ai "turchi" dei "Cahiers du Cinéma" e alla loro nuova ondata cinematografica. Nel 1961, con "Lola", il regista francese Jacques Demy disse la sua sull'amore e sulla vita, da prendere così, con un bianco e nero spensierato e con le mani in tasca, fischiettando per una Nantes vispa e malinconica.
Mi aspettavo qualcosa di più, ma forse ho sbagliato la direzione del mio desiderio, mi spiego: la trama è, volutamente e ironicamente, banale e dal punto di vista registico non ci sono inquadrature indimenticabili né movimenti macchina da mettere in bacheca.
Quindi, cos'è che lascia questo film? Un respiro nuovo; uno sguardo diverso su una donna poco raccontata, interpretata dall'affascinante e simpatica Anouk "Lola" Aimée; uno spaccato col vento in faccia, con le musiche da cabaret nelle gambe e tanta, tanta voglia di tenere testa alla prossima sfida che il destino ci riserba. In realtà, l'euforia che questa pellicola sparse nelle sale parigine (e del resto del mondo) dev'essere vista con gli occhi di chi, nello stesso periodo, poteva assistere ad un Godard che esordiva con con un già ultimo respiro, tanto per citarne Uno. Quindi Demy fu tra le braccia che spinsero un po' più in là l'asticella (seppur non in prima linea, se proprio dobbiamo stabilire dei ranghi). E lo fece con grazia ed ironia (vedi il rallenti in cui il marinaio Franky e la graziosa bambina scendono dalla giostra), inventando una Lola dolce e realista, sognatrice e accattivante: Anouk Aimée, in un angolo di Nantes, che verrebbe voglia di non lasciare mai.
(depa)

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