"La Garbo ride" da sola

Torna al Cinerofum (anche questa volta in trasferta, Spazio Oberdan) il regista berlinese Ernst Lubitsch, il quale però, dopo averci conquistato col suo touch nel frizzante "Mancia competente", si dimentica delle voci sulla sua eleganza e sulla sua arguzia e confeziona un film politicamente scorretto e pure banale. In "Ninotchka", del 1939, anche la Garbo con la parola in bocca non pare un gran che, mentre emerge il disinvolto e affascinante Melvyn Douglas.
Vi assicuro che il film parte bene. Sì, lo spettatore deve tapparsi un po' il naso (e storcerlo, se lo desidera) di fronte alla serrata ironia ("propaganda" forse è troppo, ma siamo lì...) anti-URSS, fatta di macchiette bolsceviche imbacuccate e spaesate di fronte al lusso parigino, abituate alle rape e carote di quella gelida terra da cui scappano pure le rondini...
Lo spettatore dovrà anche far finta di sentirsi affascinato dalla 35enne svedese Divina (del muto) e sopportare questa recitazione sotto le righe (ditemi voi se quella risata non crea imbarazzo), ma i batti e ribatti tra il protagonista, i tre inviati russi e gli inservienti dell'elegante albergo, tengono l'umore e l'interesse in sala a livelli accettabili.
C'è di mezzo Wilder sceneggiatore e qualcosa si percepisce, anche se pare di vedere Totò mentre "cerca casa", piuttosto che in compagnia di "Peppino e la malafemmina". Alla lunga, la storia di travolgente passione scolorisce, lasciando spazio solo alla sterile ironia antisovietica e alla bravura del protagonista statunitense, il quale da metà film in poi pare inoltrarsi da solo nel bosco di una recitazione individuale, di una passione solitaria.
Non vorrei passare per quei critici che, dopo il '45, si diedero da fare per redigere assurde analisi in difesa di un'ideologia che, di quella difesa, non aveva alcun bisogno (anzi, gli effetti collaterali spesso furono peggiori), non direi mai di non vederlo (correte: è un Lubitsch con la Garbo e Mervyn Douglas!), ma perché possiate vedere che cosa vuol dire dimenticare l'obiettivo artistico di una pellicola: affascinare, intrattenere, divertire, far sognare e/o riflettere. In questo caso, si tratta di una commedia rosa, lo spettatore si irrita per l'asfissiante ironia di bassa lega e per il fatto che le uniche rappresentanti del gentil sesso degne di nota siano le tre venditrici di tabacchi...
C'è poca roba. Anche i movimenti macchina (audaci e per nulla anchilosati, è vero) non scrivono fotogrammi indimenticabili.
Mi viene in mente "Uno, due, tre" di Billy Wilder: eleganza nei dialoghi (una bomba oltre il muro, una al di qua; e non è solo una questione di par-condicio) e ritmo elevatissimo andavano a creare un mix esplosivo. In questa pellicola che, lo ripeto, è d'amore soprattutto, la satira scadente annacqua malamente il tutto.
Perché se è vero che a mezzanotte, a Parigi, una metà parla d'amore all'altra metà, è altresì vero che a quell'altra metà potrebbe non fregargliene una fava. Soprattutto quando le parole d'amore paiono pacche sul culo.
D'altronde il film venne pubblicizzato con simpaticissimi "Garbo Laughs", "Don't pronounce it, see it!", "The picture that kids the commissars!" e ho detto tutto.
Urka, ho bacchettato Lubitsch: prenotatemi un letto in Sala 13...
(depa)

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