Un soffio tra follia e compassione

Ieri sera, dopo aver passato un'ora e mezza buona in Piazza "Deffe" a sentire il "Grillo urlante" elencare tutti i problemi e le magagne del nostro bel paese, con buona pace della mia promotrice e compagna di malefatta, ho salutato lei e quel megamix di aggressività e gravi problemi dalle facili soluzioni e, con una smorfia di diffidenza sul viso, mi sono diretto verso la sala Ninna con la voglia di dimenticare tutto... Un film di Kim Ki-duk è proprio quello che ci voleva! Questo artista coreano della settima arte mi ha sempre regalato con le sue pellicole, emozioni intense e particolari e questo "Soffio" ("Breath") del 2007 non ha fatto eccezione.
Ancora una volta sono soprattutto le immagini e gli sguardi a raccontare e a far vivere allo spettatore le complesse emozioni dei protagonisti della storia.
La gelosia, l'insoddisfazione e la disperazione possono far scattare dei meccanismi nella mente umana assolutamente imprevedibili e irrazionali e la reazione della giovane moglie e madre Yeon è di voler donare amore e compassione al detenuto nel braccio della morte Jin Jang, prima del suo ultimo respiro. La storia procede bella intensa e certi "colpi di testa" di Yeon lasciano senza fiato per la sorpresa, la genialità della pensata e la perfezione della messa in scena, ma quello che rimane più impresso nella mente sono le scenografie, le riprese e la recitazione dei due protagonisti durante i loro incontri nel parlatorio del carcere che li rendono magici, folli ed emozionanti. In più Kim Ki-duk fa provare allo spettatore anche un  brivido di rabbia e fastidio per la compassione che si prova nei confronti del (seppur non innocente, ma pentito) marito e contro chi dall'alto pilota questi incontri, decidendo quando e come interromperli.
Non svela proprio tutto il regista coreano e a differenza dei suoi due film che avevo visto in precedenza ("Pietà" e "L'arco"), questa pellicola ha un finale più prevedibile sia nella sostanza che nella tempistica, ma non per questo meno valido e soddisfacente per chi guarda.
Un'altra ora e mezza che mi sento di aver speso molto bene perché questa pellicola ha accresciuto la mia conoscenza della settima arte, intrattenendomi ed emozionandomi, quindi, in attesa di un super-commento di Depa, primo conoscitore e ammiratore del regista dell'estremo oriente, do il mio di giudizio che è, ancora una volta per un film di Kim Ki-duk, come si è capito, assolutamente positivo.
(Ste Bubu)

2 commenti:

  1. Altro grande Kim Ki-duk. Le celle a lui care (“Dream” e “Ferro 3”) riescono a portare lo spettatore in nulla temporale e spaziale saturo d’emozioni. Inoltre, questa volta, in una stanza 2x3, il regista coreano restituisce addirittura l’essenza fugace, malinconica e gioiosa, di tutte le stagioni. Nelle sue sceneggiature sempre in vita, c’è l’artista che si compiace e c’è la voglia di stupire senza boati, o sterzando bruscamente dall’asfalto ad un liscio prato verde, o inventando la caduta di una piuma. Nei suoi film vi è assenza d’inerzia, se non quella della rima, in cui le immagini richiamano sé stesse (la camicia, la seconda volta, non viene abbandonata); da questa girandola le emozioni si spargono senza centro gravitazionale, andando a incontrarsi col caleidoscopio delle nostre percezioni, sensazioni, esperienze. L’assurdo di Kim Ki-duk è il vuoto più denso di poesia.

    E’ stupendo che il protagonista si appoggi all’“albero”, è commovente la voce euforica e strozzata delle performance della protagonista, poesia è che il marito vada al pianoforte nell’attimo di maggior scontro. E’ una bellissima fiaba moderna i cui fili sono mossi dal regista in persona, nelle vesti di moderno demiurgo, della mano che da il là alla pallina sul piano inclinato, destinata a trovarsi in punti imprevedibili. Per questo motivo nessuna rabbia, da parte mia, verso il trattamento riservato al marito, grazie al quale soltanto quest’ultimo ha potuto riappropriarsi di sé. Molteplici interpretazioni, comunque; perché lo spettatore prende, butta tutto dentro di sé, rimescola e ne fa una pietanza nuova per lo spirito.

    Altro che la “premeditazione artificiosa” di cui parla Morandini (o chi per lui): come se anche il più vivo neorealismo non premeditasse e come se il più scorrevole Hitchcock non fosse artificioso, quindi siamo alle solite, formuletta alla “anarco-insurrezionalisti” e via così, giudizio affibbiato con presunzione, poca originalità, scarsissimo coraggio, proprio l’opposto del regista coreano. Ma come invece hanno dimostrato, ancora una volta, i traduttori: il titolo di questo film è, dev’essere e sempre sarà, “Respiro”: vicendevole stravolgimento, non solitaria pronuncia.

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  2. Anche se ho sfruttato il titolo "originale" italiano per il titolo della mia recensione, anch'io, dopo aver visto il film, avevo avuto l'impressione che la traduzione corretta sarebbe dovuta essere "Respiro", motivo per cui ho scritto fra parentesi il titolo inglese (e pubblicato la locandina col titolo inglese), pur non essendo il titolo originale, visto che il film è coreano.
    Concordo pienamente.

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