Alla faccia del "Tesoro ti sento lontano!"...

Ieri sera in sala Uander, io ed Elena abbiamo portato avanti il discorso Stanley Kubrick, godendoci l'esatto bianco e nero di "Lolita", film del 1961 tratto dal romanzo scritto nel 1955, del pietroburghese Nabokov. La sfida fu estrema per il regista di New York, ma il VI° capitolo della sua carriera testimoniò come questi fu artista (perché/perciò) in grado di interpretare un'opera d'arte e da essa inventarne una con vita propria.
Lo scontro con il libro è duro, non c'è che dire. Rivisto il film dopo aver letto il romanzo da cui fu tratto, ci si accorge di come, in questo caso particolare, la traduzione da opera letteraria a cinematografica sia un'arte a tutti gli effetti. Kubrick, estimatore del testo di Nabokov, probabilmente conscio della complessità di quell'opera e di una sua eventuale traduzione, non per questo esitò e, partendo da quella splendida esperienza emotiva, ne mise al mondo un figlio di celluloide, con sembianze e carattere propri.
Pellicola dall tensione emotiva costantemente alta. Imbarazzo e passione, pudore e trasgressione centrifugate, in direzione della società, in direzione dell'individuo. Perché, parliamoci chiaro il nostro Humbert ha un problema grosso; capisco l'essere attratti da una ragazzina come Dolores, ma qui c'è altro. Il personaggio interpretato dall'inglese James Mason (1909-1984) ha mollato gli ormeggi, vittima di un fuoco che brucia dentro, reso cieco dal fumo che ne scaturisce.

Tornando al film, Kubrick deve accelerare (persino dalla sceneggiatura stesa dallo scrittore russo non avrebbe potuto estrapolare meno di sette ore di pellicola), tagliare, sintetizzare e, quindi, caricare di significato le sequenza girate, conducendo lo spettatore a disegnare "il resto". Lo fa rendendo più trasparente possibile il mezzo cinematografico utilizzato di volta in volta. Le riprese all'interno di casa Haze (nella serena, civile e culturalmente attiva Ramsdale...), potrebbero essere utilizzate da un manuale di tecnica cinematografica. La "casa di Lolita" è uno spettacolo. La m.d.p. può tutto: sale dal piano terra a quello superiore, buca pareti e pavimenti, percorre scale e sonda stanze. Quasi a voler incanalare l'attenzione del pubblico dai due corpi femminili presenti in casa, al torbido e potente ardore disperso per le camere. Non c'è tempo (le due ore e mezza sono tante, scorrono veloci, ma non possono fare miracoli) per i dettagli narrati splendidamente nel romanzo da cui è tratto il film, ma l'opera di sintesi del regista è notevole. La musica ha un ruolo fondamentale, ora intonata alle immagini, ora intenta a creare uno spiazzante, stridente effetto (contrappunto). Gli attori portano sullo schermo il loro stile, dando così l'impressione di personaggi vivi e, quindi, turbati: Charlotte Haze non è a volte ridicola, a volte tremendamente e seriamente appassionata, bensì è come la maggior parte degli individui (Shelley Winters strepitosa); Dolores non è qualcosa di particolare, bensì una bambina come tante, stupenda ed esplosiva, senza appoggio alcuno (ottima Sue Lyon, quindicenne esordiente); lo stesso Humbert è credibilissimo, con le movenze e le espressioni in perenne imbarazzo. Discorso a parte per il Clare Quilty interpretato da Peter Sellers: ha caratteri ben delineati ma meno catalogabili negli schemi "base" (anche se di personaggi così, purtroppo, se ne vedono parecchi). La scelta dell'istrionico attore inglese per tale figura testimonia già l'intenzione del regista di rischiare, pur di far un'opera capace di camminare da sola. Coraggioso, perché l'ironia era componente sempre presente nelle pagine del romanzo, ma nella condensa del film, l'effetto è indubbiamente di più difficile digestione. Lo sforzo, in ogni caso, sarà premiato.

Libro emozionante, scritto meravigliosamente; film che da lì parte per farci fare viaggio altro (a guardare che cosa stia facendo, ad esempio, la dolce "Lo" mentre "Hum-Hum" è chiuso nello studio sotto il suo tappeto volante), tra tappe più tecniche ed altre più emotive.
Consiglio entrambe le opere (non in rapida successione), perché se è vero che il romanzo è più torbido, in esso è più ampio lo spettro delle scabrose tonalità dei desideri di Humbert (inoltre, quelle tre sillabe tra virgolette...), il film scalpita verso altri spazi ancora.
(depa)

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