I volteggi d'amore di Ophüls

Ieri sera, al Circolo Familiare di Unità Proletaria, proprio dove Martesana e Viale Monza s'incrociano, accanto al chiassoso "Zelig", è stato proiettato un altro gioiello dell'opera di Max Ophüls. "Il piacere", del 1952, parte da tre racconti dello scrittore Guy de Maupassant, per giungere ad un cinema perfetto, fatto di movimenti macchina affascinanti e attori che danzano elegantemente su una scena in cui perdersi è delizioso.
Lo scrittore francese, di cui ho letto solo qualche racconto, scrive in maniera eccelsa, non ci piove, l'ironia si insinua tra le preziose parole a far sì che il tutto non sia troppo agghindato e imbalsamato. Il regista tedesco, da parte sua, trova terreno fertile naturale tra le righe dell'autore francese, riuscendo a "riempirle", donar loro corpo, realizzando atmosfere e scenari che sono più che adatti a sperimentare tutte le possibili sfumature dei sentimenti sondati.
Il primo episodio, che obbligò il regista Bertolucci ad uscire dalla sala (condivido pienamente questa sua reazione, è capitato qualcosa di simile anche a me, quindi accadrebbe a chiunque), in particolare l'ingresso della "maschera" al ballo, è...allucinante, da vertigini vere. Non ci si può rendere conto di cosa stia succedendo, si sta lì, a bocca aperta, non si mette a fuoco, si percepisce soltanto, qualcosa si grande è accaduto. Un'affollata e caotica danza viene orchestrata magistralmente, la m.d.p. "valzeggia" d'incanto e racchiude in sé centinaia d'anni di cinema.
Il secondo racconto (pure questo causò "parossistiche" reazioni nel regista parmigiano) è un altro volteggio: fuori dalle finestre di una "maison" la m.d.p. s'arrampica come edera curiosa, le persiane socchiuse lasciano scorgere vestaglie e clienti, giarrettiere e bottiglie, tutt'attorno una cittadina di riviera avvolta dal crepuscolo e scossa dall'eros. Questa sera "La casa" è chiusa per la comunione del giorno dopo e allora tutti, ma proprio tutti, si ritrovano su quella panchina sotto l'albero, che dà sul molo. Lo spettatore è inebetito e, quando ancora sta socchiudendo gli occhi, si risveglia accecato dal Sole e dalle luminose bellezze sparse nello scompartimento di un treno che vorremmo non fermasse mai. Quante gambe! E si spegne la luce! Eh ma che maniere! E Jean Gabin! E quel tragitto sul carro con sopra le sedie (primi furgoncini sette posti, non per "qualche pezzo di legno e qualche maiale", che loro "conoscono bene"), quella campagna fresca fresca da Renoir...qui sono le travi all'interno della casa, improvvisata a dormitorio di bellezze, a moltiplicare i piani.
Il terzo episodio va annoverato soprattutto per la sequenza del suicidio (m.d.p. in caduta libera sulla vetrata di una serra) e per l'eleganza della cinica chiosa finale.
Max, sei tu che "hai una grazia straordinaria, nei gesti più straordinari".
(depa)

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