Tolleranza zero colossale

Ieri sera, in sala Uander, ho potuto portare avanti il discorso intrapreso sabato scorso. Eccomi quindi a scrivere sulla seconda celebre "creatura" di David Wark Griffith: "Intollerance", maestosa pellicola del 1916. E' passato solo un anno circa dal film che passò alla storia per le reazioni nelle sale e nelle strade (rispettivamente, esaltanti e rabbiose), ma Griffith appare maturato come un vecchio del mestiere, riuscendo ad orchestrare alla perfezione ogni elemento, dalle colossali scenografie al montaggio dinamico, dall'intreccio affascinante alla sbalorditiva inventiva tecnica.
L'opera è davvero incredibile e conserva una solidità narrativa straordinaria, lasciando sulla lavagna i segni di gesso che tutti i discepoli dovranno imparare a memoria.
Non solo c'è stata evoluzione in campo tecnico (riprese più disinvolte: carrellate, zoomate, panoramiche, dettagli, primi e primissimi piani), ma anche in quello narrativo. Griffith, con la spavalderia del genio ribelle, alza il coefficiente e confeziona una pellicola suddivisa in quattro capitoli ambientati in periodi storici differenti e, soprattutto, intersecandoli tra loro, con una chiarezza che dovrebbe essere ripassata dai registi moderni, spesso affascinati dalle complicazioni, quasi che non capirci un cazzo sia fashion.
Le storie corrono parallele ad esporre la tesi per cui l'intolleranza sia insita nell'uomo ma, in qualche maniera, anche il suo antidoto (l'amore fraterno tra i gli individui e i popoli). L'elemento razziale non è presente punto. Quindi, ricollegandoci alle parole scritte per "La nascita di una nazione", si potrebbe dire che le scuse siano state abilmente pronunciate a mezza voce, o sviando il discorso. Ma personalmente ritengo che, se non si tratta di un colpo di spugna, poco ci manca. Addirittura, il messaggio che emerge abbastanza chiaro è quello secondo il quale, alla fine, a ben vedere, ci siamo anche andati a perdere, altro che evoluzione (le regole d'oro dei tribunali babilonesi...).
"Intolleranza" è un film di tre ore che scorre leggero, grazie alla bellezza delle immagini e al ritmo, studiato e mantenuto alla perfezione. Basti vedere alcune sequenze meravigliose: "lo schiaffo e il bacio" (modernità che lascia impietriti), il bacio sulla porta! Il dettaglio sul bavaglio del bambino! L'assedio a Babilonia (con gli episodi del soldato trafitto e delle testa mozzate e la rapidità dei corpo a corpo, spettacolari)! Ma era già un cinema a tutto tondo, già un uomo cresciuto (elementi puramente scenografici, come un tizio che esce da un ufficio, sullo sfondo). Griffith danza all'impazzata, si permette di tutto, anche un "riavvolgimento", riproduzione in retromarcia, per rappresentare Belshazzar che ritorna vittorioso tra le braccia dell'amata; non solo, concede esplicitamente un intervallo di cinque minuti al pubblico in sala!
Impressionante TUTTA la sequenza del ballo per Temmuz; di una forza strepitosa la stupenda umanità dell' "eroico incoraggiamento dell'amore", vedere per credere (e quel viso non lo scorderete mai più).
Ma non solo: torna l'ironia dell'autore (che, nella sua prima grande opera, era disturbata da un certo prurito razziale, o politico in generale, dovuto ad una certa superficialità): le "Moraliste" e le loro meschinità, la Beneamata che, da lontanissimo, si dispera ed incita al combattimento, il nobile francese che gioca con la pallina dopo la firma del massacro...
Insomma, una pellicola straordinaria che, sul finire (sopra ho già accennato al ritmo), fa sfoggio, sconvolgendo definitivamente lo spettatore, di una padronanza totale dello strumento cinematografico teso a catturare l'attenzione del pubblico, ad inchiodarlo al muro con la suspense del montaggio e dell'intreccio. Il parallelo multiplo finale è mozzafiato e, quando il sottotitolo dell'opera pare essere un rassegnato "Sarà sempre troppo tardi" (tutti davanti alla croce e via, avanti il prossimo), regala la speranza che i miracoli esistano, proprio come questo film.
Guarderei il sorprendente "La nascita di una nazione" tre volte, "Intolleranza" infinite.
(depa)

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