Altro Loach brutto giusto

Ieri sera, al "circolino" sulla Martesana, è venuta anche Elena. Forse spinta dal fatto che si trattasse dell'ultimo appuntamento dedicato al cinema sull'Inghilterra tatcheriana (e sulle sue macerie), dal titolo "God save the queen?". Oppure convinta dal regista che apprezzò qualche settimana fa, in sala Uander. Ken Loach. Un regista simbolo per molti ragazzi che mi hanno circondato negli anni della mia formazione, per un'intera generazione. Il film proposto è stato "In questo mondo libero...", del 2007, e, con un certo disagio, lo ammetto, ho sofferto ancora una volta dinanzi a quelle che, io rintengo, sono le enormi lacune artistiche dell'autore, certamente non silente (come, invece, tanti altri) di fronte a tematiche importanti quanto drammatiche. In questo caso il lavoro clandestino.Non è facile parlare male di un film che, nel silenzio (assenso?) quasi generale, si assume il compito di portare alla superficie un doveroso grido di rabbia, di rivolta. Ma il cinema non è retorica, il cinema deve condurre per mano, non porre fotografie di brutture umane, alla ricerca di facili coinvolgimenti emotivi. Cosa che questa pellicola fa, dall'inizio alla fine (o quasi, ma si parla dell'ultimo fotogramma, quel buio arrivato, ne va dato atto all'autore, ad un pelo dalla tragedia...cinematografica).
"It's a free World..." trasuda retorica, linguaggio superficiale e banale; in esso Loach si ritrova addirittura (evidentemente a corto di frecce, sul piano estetico e concettuale) a piegare la sceneggiatura alle più basse logiche d'intrattenimento cinematografico da botteghino (il più classico dei "Giuro, questa è l'ultima volta!" che diverrà quella fatale, dai su; premio Osella, appunto, alle fattorie...). Di figure deprecabili e meschine come le due protagoniste (due attrici non certo indimenticabili) ce ne sono a bizzeffe, sono più che realistiche, certamente. Quelle scabrose situazioni sociali sono riscontrabili ovunque, in ogni nostra città, in ogni seconda serata mediaset (e non). Il sapore di denuncia preconfezionata, alla Staffelli, tutti col kharma pulito verso le 21.30, mi ha assillato per l'intera proiezione. Contraddicimi Bubu, datemi contro, qualcuno mi dica, come credo, che non capisco una fava. Ho voglia di scontro. E' vero che il vuoto che si respira sulla scena non si discosta, c'è da giurarci, con quello che pervade le menti di figure di codesto spessore. Ma di artifizi per raddrizzare la situazione, il cinema è ricco (la figura del padre della protagonista, spinge, seppur in maniera sacrificata, in questo senso).
Le società sono assassine, quella inglese come tutte. L'egoismo vince su tutto, lo stato confusionale delle due protagoniste (lo stesso che attanaglia qualunque chiacchierata con un nostro collega, col nostro vicino) non può essere più accettato. Nemmeno nel più acuto momento di debolezza (a maggior...!). Va bene, cioè male.
Non è l'argomento, ci mancherebbe, sono le parole cinematografiche a stonare. Rammarico, giusto un filo invisibile di speranza, di fronte all'animale uomo; cresciuto male, ormai lo sappiamo. Ma non basta pigiare forte sui tasti della disperazione e della rabbia. Al cinema dobbiamo chiedere di più. E' un'arte al pari della la musica, giusto? E allora una melodia dev'esserci, per quanto struggente, angosciante.
Scaviamo rapidamente nell'opera di questo regista perché per inquadrare meglio possibile se alla sua fama di grande denunciatore e sensibilizzatore possa accompagnarsi quella di artista a tutto tondo. Questo glielo dobbiamo.
(depa)

2 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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  2. Direi che invece sono fondamentalmente d’accordo con la tua recensione.
    D’altronde il primo che sul ‘rofum ha “cassato” pesantemente il regista britannico sono io. “La parte degli angeli” è l’unico film di Loach che ho visto nella cui sceneggiatura non ci sono contenuti politico-sociali e cosa c’era di buono in quel film? Niente.
    In questa pellicola invece i temi in ballo sono temi forti e noti ai più anche se, soprattutto ultimamente, se ne parla sempre meno perché, in periodo di crisi, ognuno guarda ancor di più al proprio orticello marcio (che schifo!) ed è facile dimenticarsi che mentre ragazzi fortunati come noi si lamentano (per carità, giustamente) di incontrare grosse difficoltà oggettive per mettere su casa e/o famiglia, in paesi non troppo distanti da noi c’è gente che soffre la fame e la mancanza di libertà d’espressione. Persone che cercano un rifugio e una nuova opportunità di vita migliore perché nessuno è nato con l’istinto alla sopravvivenza e basta. Tutti noi abbiamo la tensione al vivere e bene! Ma questi uomini, donne e bambini di grande volontà e dignità, nella maggior parte dei casi, si trovano ad essere maltrattati o respinti o sfruttati, inghiottiti da un sistema e da un “nuovo” mercato del lavoro che considera la manodopera come un qualcosa attraverso il quale fare i soldi e basta, alla faccia della solidarietà umana e del bene comune, ormai illustri sconosciuti di questo schifo di società.
    Chapeau a Ken Loach che spesso nei suoi film propone temi di riflessione importanti (“Terra e libertà” non si batte!), ma cinematograficamente zero in pagella. Spesso, durante il film, mi sono addirittura distratto a pensare ai fatti miei a causa delle scarse emozioni trasmesse e, visto l’argomento della pellicola sopra descritto e la mia sensibilità ad esso, direi che la cosa è molto grave.
    Se avessi ascoltato un’ora e mezza di comizio antirazzista e di denuncia delle agenzie interinali irregolari e sfruttatrici sarebbe stata la stessa cosa. Arte cercasi disperatamente.

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