Un Elio Petri di classe

Ennesimo esordio decisamente positivo, ieri sera, in sala Ninna. 
Elio Petri, con la sua opera del 1971, propone un quadro vivo e sincero della vita in fabbrica.
Se “La classe operaia va in paradiso” o meno e come prova ad arrivarci, lo scoprirete guardando il film che consiglio vivamente a tutti i cinerofumiani e del quale vado ad esporvi brevemente le mie impressioni e sensazioni…

Una pellicola fredda e pungente come l’acciaio delle macchine della fabbrica che stordiscono per il loro rumore e inghiottono pensieri e parole dell’operaio Lulù (Gian Maria Volonté) che, schiavo di un sistema e di un amore “innocente” e sincero, lavora a testa bassa, finché il senso d’oppressione diventa troppo, tanto che per eluderlo non bastano nemmeno più le carezze tenere e leali della dolce Lidia, una grande Mariangela Melato che regala gli unici momenti di calore.
Freddo, infatti, anche come il clima che accoglie gli operai in sciopero fuori dalla fabbrica: la neve ghiacciata ai lati della strada e il “gelo” che c’è tra i sindacalisti reazionari e il movimento degli studenti e operai uniti e rivoluzionari.
Per quella che è stata la mia percezione, il regista mantiene una certa equidistanza tra tutte le parti in gioco (della serie, ce n’è un po’ per tutti), tenendo sempre al centro l’operaio e l’uomo. Lulù perso e distrutto, insoddisfatto, rabbioso, disperato, ecc… Sono centinaia le emozioni che si susseguono nel cuore di questo “bauscia di terza classe” che un grandissimo Volonté interpreta in maniera sublime e coinvolgente, con quell’accento barbaro, quella postura aggressiva, che lo ha trasformato da stacanovista a crumiro e poi, da operaio fedele a rivoluzionario. Il tutto catturato su pellicola alla perfezione dal regista, grazie a ottimi primi piani del suo viso sporco di chi vive la fabbrica fino ad identificarsi con essa, che si alternano con quelli dei macchinari in continuo e rapido movimento, e il senso d’oppressione è sempre lì che non molla la gola dell’operaio e dello spettatore.
Alla fine della visione, gli interrogativi sono tanti, le certezze poche e anche il confine tra estrema lucidità e follia è (ancora una volta) messo in discussione perché è chiaro che “dovrebbe essere diritto di ogni uomo sapere a cosa serve il lavoro che sta facendo!”. Momento di massima poesia del film questo (grazie anche ad un grande “Militina” Salvo Randone), nel quale l’alienazione a cui può portare il lavoro in fabbrica viene messa in bella mostra, alla faccia degli studenti “figli di papà” che andavano a sbraitare di lotte estreme, rivoluzione e violenza contro il padrone e poi tornavano ai loro studi, comodi e “borghesi”. E alla faccia dei sindacati, preoccupati più di essere sempre in prima linea, unico punto di riferimento per le rivendicazioni, il tutto per portare a casa la loro pagnotta.
Unico peccatuccio di quest’opera, a mio parere, è che in certi passaggi non indaga abbastanza a fondo determinate situazioni proposte e decisamente intriganti (oltre a questi movimenti, anche per esempio, il rapporto di Lulù con l’ex moglie e suo figlio), ma d’altronde, ci sarebbero volute tre/quattro ore di film, quindi di peccato veniale si tratta.
Quasi in conclusione di pellicola, Petri propone una metafora da me tanto amata (…) e il finale è decisamente amaro, come un po’ tutto il film.
Tirando le somme: freddo, pungente, amaro e assolutamente consigliato.
(Ste Bubu)

1 commento:

  1. Stupendo. Tutte le tue emozioni, ben descritte e da me condivise, più tante altre, quelle di ognuno, quelle di ogni nuova volta. Meno male che hai tappato il buco di questo film che vedemmo e non recensimmo, forse proprio per la sua complessità.
    Mille spunti mille riflessioni. Un film dalle tinte, dalle grida, dalle disperazioni che rimangono per sempre neglio occhi.
    Grande Petri.

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