Castelli in aria tra Chivasso e Paris

Non ci posso credere. Una commedia italiana non rattrappita, bensì fresca, divertente, non scontata. Ecco, mi devo correggere, quasi italiana. Anzi, proprio a metà tra Francia ed Italia, in quei territori (fisici e culturali) in cui è del tutto particolare la fusione di vecchie e nuove tradizioni italofrancesi, decadenti nobili genealogie che là assumono una veste con tonalità inconfondibili. Niente da applausi ma, forse anche grazie al vuoto attorno, "Un castello in Italia", di Valeria Bruni Tedeschi, spicca come un'acacia nella savana.
La regista torinese, classe 1964, fatto tesoro dell'esperienza transalpina (dove ha vissuto e studiato), riesce a tratti a ricreare una libera atmosfera da Nouvelle Vague, come la sequenza iniziale, la fuga dal monastero e l'incontro col ragazzo. E' vero, non si vedono le distese aperte su un orizzonte di infiniti gradi, come in quell grande ondata cinematografica, ma qualcosa combacia. Vedete un po' voi quanto.
Poi s'innestano le altre storie e la pellicola si dichiara apertamente, è una commedia leggera, da non prendere troppo seriamente. Ma in fondo, come la vita. A proposito di vita, pare che ci sia più di qualche punto autobiografico dell'autrice (bla bla è stata davvero fidanzata con Louis Garrel, classe '83, ueilà, oggi compie 30 anni! Auguri e complimenti! Per il film intendo bla bla la madre nel film è davvero sua Madre, Maria, complimenti anche a lei, la migliore bla bla è la sorella di quella volpona della Sarkozy ah no non c'entra). Guardando il film si può essere affettuosamente grati per la disinvoltura con cui l'autrice/attrice si è spogliata, ma anche capire che quel fascino può giungere anche dalla verosimiglianza dei fatti e delle situazioni. Aristocrazia decrepita, vittima della propria incapacità prima ancora del decadimento dei valori che s'accompagna tristemente ai nostri tempi. Ma ciò rimane sullo sfondo. Sapientemente la Bruni Tedeschi salta da un registro più drammatico ad uno più comico, donando un ritmo serrato alla pellicola.
La regia regge puntando molto sulle rughe, bagagli di tutti, sulle brevi pause di riflessione (o angoscia) e sugli scatti nervoso dei protagonisti. Rari passaggi ambiziosi, come quello dalle luci sfumate della strada ai due protagonisti su Vespa rossa. Ma la forza sta proprio nell'immediatezza, poche pretese ma ben realizzate (una sorta di magico equilibrio viene mantenuto, impensabile nei film italiani, esempio: la madre, ritornata nella cappella, non apre bocca). Come già accennato di traverso, mi sono piaciuti molto tutti gli interpreti, compreso il perugino Filippo Timi (classe '74, si salvo anche in "Quando la notte", per me ormai è un eroe).
Il risultato è, per me, un buon film, che trasuda "franco-italianità" e che consiglio a tutti. Si ride molto e si rammenta anche, è bene non dimenticarlo, che ne abbiamo solo una. Di vita. Quindi, non corsa ai castelli, bensì agli affetti e ai sorrisi.
(depa)

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