...è quella di non guardarlo.

Ci risiamo. Impossibile entrare ai Chiostri di San Barnaba a vedere un film. Anche arrivando mezz'ora prima. Evitate, quindi, di recarvici. Se gli organizzatori non si degnano di aggiungere 50 seggiole (sì sì, SIAE, permessi e "credi che non voglia guadagnare di più?" and so on), allora, io ed Elena, ce lo vediamo a casa questo ultimo gran lavoro di Giuseppe Tornatore: "La migliore offerta" (2013) è un blockbuster di serie C.
Filmetto, nulla più; nemmeno per coloro che "arrivo a casa e son stanco" (personalmente terrei duro e punterei più in alto, in ogni caso ci si guadagna), debole come qualunque hollywoodiano di largo consumo, di ampia sponsorizzazione; eppure il regista siciliano dovrebbe sapere quale rispetto si debba portare a questa arte, lo dimostrò astutamente in quella magica scena di quel "nuovo cinema" cosparso di baci appassionati. Lì, la mente spaziava libera in sogno, questa volta è rattrappita in incubo.
Un giallo smunto senza il morto, d'anticaglie, racconto di una truffa con ambizioni psicologiche che degrada in rosa Harmony. Non è richiesto un percorso psicanalitico che scenda oltre la superficie, è vero, ma, in questo caso, tutte le componenti possibili sono inesistenti: non c'è suspense, non c'è pathos, né emozione, né fascino, né ironia, né mero intrattenimento (foss'anche brutto). Scarsissime le interpretazioni dei protagonisti, il ragazzo e la ragazza sono pessimi, il protagonista fallisce i momenti cardine (la prima asta, che dovrebbe dispiegare tutto il fascino di quel mondo, risulta fredda, affettata, affrettata), ma Goeffrey Rush può davvero poco per reggere la baracca (l'unica sarebbe stata rifiutarsi).
Alla quarta consulenza del vecchio protagonista col giovane assistente ci si preoccupa sul serio su cosa potrebbe riservare la rimanente ora di pellicola. Infatti, di male in peggio: è un cinema esplicito, d'esposizione, margine nullo all'immaginazione dello spettatore ("Quando s'è accorto che stavo parlando di me?"...). Questa storia di due malati mette sul piatto dialoghi da sit-com:
-"E com'è essere sposato?", -"Proprio come un'asta, non sai mai se la tua offerta è la migliore!", Wilde zombie ritorna e porta scompiglio per Parigi, alla ricerca del creatore di codesti "perugini").
-"Ha deciso di farmi ingelosire?" !?!?!...ha deciso di farmi ingelosire???. Non ci credo. Non è tutto: proprio nella scena successiva la fidanzata dell'assistente genietto: "Siamo in crisi, poi lui dice spesso 'Claire'", oddio sto Mahler.
Quando lo "schema pentimento" si ripropone tra il vecchio e l'aiutante, un conato emerge spontaneo ("E mo' basta però!" si sente in sala Uander).
Dettagli stupidi e inutili persi per strada ("Al computer usa sempre un nome diverso" ?!?!), scene imbarazzanti (il pranzo in cui viene strappato l'inventario). Nessuna armonia (nessuna sezione aurea pretesa, giuro) tra immagini e parole...persino tra gli eventi. Il ritmo è quello schizofrenico della protagonista, annoiando e irritando me ed Elena.
Ok è orribile, ma, in particolare per film di questo tipo, conta la chiusura, cui sono aggrappate le ultime speranze di strappare una sufficienza...niente, è ufficiale: il film è una boiata, finale artificioso dagli ingranaggi non combacianti. Non ci sono mosche che escono da trottole, è vero, ma quell'ultima digressione sul tempus fugit è fuori luogo come uno sci alle Maldive.
Pure Morricone è scomparso sotto tanta rumenta!
Premi al film, alla regia (COSA?!), premi al montaggio (?!), ai costumi (!?), al trucco (?!): ecco spiegato il valore di donatelli, nastri argentati e ciak dorati vari...chissà perché, a Berlino si sono limitati a lanciare all'autore un pezzo di Cinecibo.
Qualcuno mi racconti cos'ha intravisto in questa pellicola. Di bello, intendo. Mi dica una sequenza apprezzabile, oppure un'inquadratura degna di nota.
Non vale nemmeno la pena di arzigogolare argomentazioni barocche, di fronte a tale confusione "artistica": imbarazzante.
ERLC - Esercito Rivoluzionario di Liberazione del Cinema
(depa)

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