Clair tra muto e sonoro

Sala Uander. Ieri sera. Io ed Elena. Elena ed io. Altro René Clair, anno 1931. "A noi la libertà" (sì, "noi") è un film in cui, il regista parigino, si trascinò forti lacci legati al cinema muto ed all'espressionismo del decennio precedente, ma facendo già l'occhiolino al sonoro che verrà.
Il film e inizia e il simbolismo che permea la pellicola è messo sul banco: da una parte si scende e pare un mondo di giochi e giocattoli, dall'altra si sale e la verità emerge in tutta la sua assurda tragicità. Non è oro tutto ciò che luccica, diciamo. Il progresso ha due facce. Da quella scura, succede che vince il più furbo, chi sgomita e sbrana, pronto a "farsi da sé" senza scrupoli. Espressionismo vecchia scuola, luci ed ombre e caratteristiche forti, il regista cinquantenne realizzò qui la famosa scena della catena di montaggio ("Ma che plagio, deficienti! Per me sarebbe solo un onore se Chaplin...!", grande René), alternando gag che oggi risultano più che datate (i molti omini buffi s'inseguono per chilometri), proprie di una riproduzione parodistica e ironica, ad immagini d'effetto che mostrano la mostruosità che sta dietro al sistema capitalistico, il quale rende gli operai carcerati, i carcerati ad automi senza dignità. Primi anni del sonoro che crescono, come detto, tra resti del cinema muto, parti cantate (aggiunte in postproduzione) e primi audaci utilizzi di effetti sonori (il grammofono che va guastandosi), coprendo questa pellicola di un velo di ingenuità, anche nei contenuti.
Il finale travolgente ripara alla precedente fase di stallo che mina il ritmo complessivo del film. Ma la chiusura è amaro-dolce, sì il retrogusto ultimo è zuccheroso, quasi disneyano. Comprensibile come potesse aver urtato Malle, Rohmer e la compagnia dei tristi e incazzati...nonostante il fascino stilistico.
(depa)

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