Fantasia di Bergman

Giornate d'agosto fresche, non male. Pomeriggio solitario in sala Uander, io solo con Bergman. Nel 1982, il regista svedese appassionato di temi alti, girò un film che doveva fare da summa delle sue "ossessioni": "Fanny & Alexander"; ce la fece eccelsamente, con le sue solite eleganza ed ironia; lo spettatore può verificare, a patto di disporre della versione completa di 6 ore, puntate TV. La versione tagliata che ho visto io, dimezzata, mostra strappi inconciliabili col rigore dell'autore.
Certo certo, più che godibile, cinema d'alta qualità. Ma proprio in considerazione di questa, accontentarsi di monconi, che inevitabilmente non sorreggono la perfetta armonia propria del regista, non è permesso, per gli appassionati D.O.C.. Ad ogni modo, le impressioni.
La mano del maestro della Settima si vede, eccome. Orchestrazione elegante, sincronia tra m.d.p., attori e scenografia, montaggio sinuoso. I salotti borghesi in gran festa sono lo scenario adatto. C'è tutto, ciò che sta sul palco e, lato malandrino del regista, ciò che sta dietro le quinte. Le ricchezze materiali, è evidente, raramente trascinano a sé quelle morali. Questa morale poi, tsz!, Cos'è? Ipocrisia di facciata, quanti inutili affanni, tra acque burrascose, di fronte all'Equa Livellatrice!
Con stile pulito e ammaliante si snocciola sullo schermo qualcosa di più di un soggetto scritto dal regista. Ingmar bambino ripercorre i propri fantasmi, facendo delle immagini ciò che desidera, plasmando con la cinepresa opere d'arte in movimento allacciate da stacchi vellutati, dando corpo a sinfonie cinematografiche.
L'infiammata fantasia dei bambini e il cerino spento degli adulti. Tra queste due sfere, la vita, con tutte le sue ombre. Il mondo dei grandi, guazzabuglio confuso e maleodorante, trasformato, tradotto, per difesa, dai grandi occhi che i piccoli fissano su tutto.
Il sogno divenuto incubo di Fanny & Alexander. Tac. Eveline fottuta in un attimo di comprensibile sbandamento. L'intreccio (ma, ripeto, ho visto la versione mozzata) è quello del romanzo classico: tra i roboanti colori dei palazzi borghesi e il bianco e legno della vita di clausura, da cui i due protagonisti verranno strappati con la forza dalla madre, in realtà nessun colpo di scena, solo qualche "merda" pronunciato di rabbia e qualche letto sfondato di piacere a sviare dalla linea retta. C'è la consueta ironia delicata del regista, ovvio, ma l'eversione di questo film, sta nella qualità delle immagini. Un periodo delicato della famiglia Ekdahl viene pennellato per il gusto di guardarlo, con gli occhi di adulti mai cresciuti, con quelli di bambini più caparbi. E' l'intensità dei momenti che scuote lo spettatore (le grida disperate della madre al capezzale del marito, la malata in preda alle fiamme), non certo le bastonate al povero Alexander (anche in questo caso i tagli si sentono: in quella casa degli orrori, a volte scappa un sorriso) o le sorti della moglie sfortunata e ingenua.
Occhio lucido di Bergman nel guardare questa vita così bella comunque sia, brindisi alla vita e ad ogni sua sfumatura, fantastica o reale.
Versione tagliata da schivare, ad esempio, poiché la tematica artistica (al contrario di quella religiosa, familiare...), quella teatrale in particolare, rimane un filo di ragnatela.
(depa)

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