Fassbinder e l'epopea di tutti noi "Franz"

Eccoci a "Berlin Alexanderplatz". Rainer Werner Fassbinder, 1980. Miniserie televisiva tratta dall'omonimo romanzo di Alfred Döblin del 1929; opera completa aggiungo io; 13 episodi e un epilogo; 14 ore; 8 partite di calcio ed un tempo. Sala Uander, per quattro giorni, avvolta in questo quadro mozzafiato sullo smembramento degli uomini di un tempo maledetto.
Franz è uscito, inizia l'incubo. Comincia questa storia con un'esperienza onirica che ricorda gli attimi felliniani, ma senza fuga, solo disperazione. Franz è euforico, balla, saltella, si butta a terra, poi, dopo un'ora e un quarto, quella lettera a gelare tutto. Il racconto avanza e scopro il formidabile dono del grande regista, innamorato pazzo della Settima, dono a questa stessa arte, a tutti noi.
La società (del tempo e del luogo?) forse non è malata mortalmente solo per una socialità che sopravvive miracolosamente, ma sono affetti borderline quelli che tengono a galla rapporti interpersonali vivi, sì, ma febbricitanti.
Inquadrature con giochi di riflesso incantevoli (la proiezione illusoria o rivelatrice degli individui, classica del regista; Lina nella vetrina...) e luci al neon, illuminazione discontinua, luce ed ombra. "Qui bisogna fare pulizia, ecco, così, tutto pulito!", il confuso Franz. La società di cui si fa parte è composta di tanti viscidi Luders. I primi tre episodi compongono un'introduzione stupenda. E Franz, il povero Franz, si sveglia in una selva di birre vuote, proprio quando gli appare Eva, luminosa come un angelo (Schygulla sublime). Eva, tornata per mano di dio, lo trasforma nel tenero e buffo Franzen. Pronto per rifarsi sbranare dal qualcuno là fuori. Sì perché i tempi sono violenti. Franz è spaesato, impaurito; lui che vuole rimanere giusto ed onesto, si ritrova spesso nel suo, il più stronzo di tutti. Ovunque il disfacimento dei valori, anche nella padrona di casa, cieca di fronte a qualsiasi bruttura, pur di ricevere la mensilità.
La pellicola martella anche sul tasto della sessualità, erotismo meccanico dilagante, istinto animale, freddo lavoro, malattia terminale.
A metà racconto, uno shock: spettatore smarrito, senza il faccione e la corporatura del dolce Franz. Tutti come "Cilly", sconvolti e senza appigli. Ma, forse...ma sì Franz è vivo! Impennate nei cieli e cadute nell'abisso, per il nostro Franz. Il cielo, tra tutti, è quello che trova in Mieze, lei sì, un vero angelo (Barbara Sukowa, classe '50, da lacrime): la sua incursione è quella di un sole che può bruciare.
Ci sono anche i contrappunti tanto cari al regista, splendido quello del VII° episodio: le immagini dell'omicidio e l'audio di bollettini vari.
Nel decimo episodio, uno degli indimenticabili, molti, monologhi di Franz, permette di soffermarsi ad assaporare la qualità del protagonista: un mastodontico Günter Lamprecht. A ciel sereno, "con le donne d'altronde è così", il crollo di Mieze e del sogno, l'ennesimo, di Franz. L'urlo di Mieze (poi quello di Franz) sarà l'urlo di Munch, l'urlo di una nazione. Di un'epoca.
Tutto sbagliato, tutto assurdo. Il "non stare a pensare", il voltarsi di là che trasforma l'uomo. Sul finire del racconto, si chiarisce l'acutezza di quest'imponente opera (gran merito a Döblin, certo): mostra cause ed effetti della disgregazione scellerata di una società, di una cultura sbarellata dalla realtà, senza puntare il dito facile, l'indice, ma serrando la mano attorno alla m.d.p., mostrando una svastica di sfuggita, e poi...tutto il resto. Il fango, la palude malsana che alimentò piante malsane, erbacce velenose.
Franz "ha fatto tante stronzate, ma è un buon diavolo". Ma i tempi, è bene non dimenticarlo, sono quelli per cui gli abbracci sono percosse, i baci morsi di vampiri. Nell'ultimo episodio la superba sequenza della passeggiata mortale nel bosco (interpretazioni e regia da vestiti strappati e salita sul palco). La voglia di leggere il romanzo dello scrittore tedesco non è più sopportabile, tanto è il fascino dei testi (come la genialità della loro scelta espositiva, made in Rainer).
E' un'opera grandiosa. Che si conclude, cellulloide succulenta, con un epilogo su cui l'autore poté spaziare a modo suo, in campo ancora più aperto. La potente scena dell'apparizione dei fantasmi del passato di Franz, attorniato da due angeli, introduce al sogno di Fassbinder su un sogno di Franz. Brividi. Tempi di "quanto dura ancora?!", non solo per Franz. Assieme a lui, tutti i protagonisti, pure le comparse, tutti noi vittime carne da macello della violenza che l'uomo si porta dentro. Biberkopf non si è chiesto "come e perché". Ecco la feroce resa dei conti finali che il regista non si è sentito, in ogni caso, di porre fuori dal discorso. Nessun assolto. Tutti coinvolti. Anche il pubblico attorno al ring, certo. Ma anche noi. Al di là del bene e del male.
Povero Franz, poveri noi.
(depa)

1 commento:

  1. Finito il libro si scopre quale dettagliata, profonda ed allucinante sceneggiatura fosse il libro di Doblin. Stile originale, tra realismo e futurismo (trac trac avanza il mietitore...). Il sogno di Fassbinder è quasi già delineato in quello dell'autore tedesco. La lettura, oltre alla grande intepretazione del testo dello scrittore da parte del regista, potente e disperata, permette di cogliere quelle piccole e grandi modifiche che testimoniano un lavoro minuzioso e sapiente da parte di Fassbinder.
    Romanzo e Film esperienze eccezionali che auguro a tutti.

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