“Alla curva di Barberino me li porto giù tutti e tre nella scarpata…”

Domenica sera, in sala Ninna, ha fatto la sua comparsa il regista emiliano Marco Bellocchio con il suo primo lungometraggio, “I pugni in tasca”, uscito nelle sale nel 1965.
Un film impegnativo e angosciante che pone uno sguardo critico e indagatore su una famiglia dell’epoca.

Una famiglia particolare, composta da madre cieca e non autosufficiente, tre fratelli, di cui uno con problemi mentali, e una sorella.
Attraverso la rabbia del secondo-genito Alessandro, si respira tutta la frustrazione che i ragazzi vivevano in quegli anni che precedettero il sessantotto e la sua rivoluzione sociale. Il giovane protagonista esprime una esagerata e vitale volontà di far esplodere, con pensieri e/o azioni incestuosi e criminali, l'unità di base della società: la famiglia, centro di una mediocrità soffocante, e metterne così a nudo le contraddizioni.
Una piccola vicenda di solitudine e malattia, di stanze anguste e di vite annoiate che ha anticipato alcuni importanti temi che saranno, tre anni più tardi, ampiamente sviluppati.
Una delle scene che più mi ha colpito è quella del pranzo. La famiglia produce una comunità di individui infelici e repressi e così il momento di aggregazione per eccellenza, appunto il pranzo, diventa un campo di micro-scontri trai suoi componenti, personaggi che la società capitalista aliena perché incapaci di conformarsi agli standard di produzione e che gravano sulle spalle di Augusto, il fratello maggiore, l'unico integrato e che si rivelerà per l’egoista che è, come il sistema impone.
Complice anche la bella colonna sonora di Morricone, la drammaticità della pellicola è dirompente e i momenti di maggiore tensione si vivono senza fiato, come il drammatico e imprevisto finale.
Un film estremo. Un altro capolavoro della Settima in saccoccia.
(Ste Bubu)

1 commento:

  1. Mi trovo d'accordo con le tue sensazioni e riflessioni. Una frustrazione che grida potente contro il quadro familiare è incorniciata da una poetica d'effetto (il bambino che passa sotto il letto). Introduzione ad un brutale e mortale male di vivere che per colonna sonora ha le malinconiche di Morricone. L'incontro tra due sfere, quella di coloro che "stanno bene" (guardando e passando) e quelli male; molto male. Chi trova il modo di esistere (barando) e chi stente ogni ora. Il boogy-boogy allo Splugen Brau e il tiro alle pantegane da una parte, strade pericolosamente sul precipizio (mortali) dall'altra. Ottime fotografia e interpretazioni (su cui svetta il protagonista), rendono meno gravoso, al regista, il confezionamento di questa pellicola di qualità.
    Un'altra intensa, drammatica produzione Doria...

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