Il cuore duro dell'arte

Figurarsi quali stupore e gioia se il secondo film in programma all'"Oberdan", dedicato al pittore olandese Van Gogh, viene citato come valido esempio di fusione tra cinema e pittura dal saggio "Il cinema e le arti visive" di Antonio Costa, che sto casualmente leggendo...Tutti alla Cineteca, quindi, a vedere il "Van Gogh" del francese Maurice Pialat, del 1991. Con un protagonista più introverso, meno burrascoso, rispetto al precedente altmaniano, questo accurato ritratto potrebbe intitolarsi "Vincent & Marguerite".
Il sottotitolo del capitolo finale dell'inquieto artista, invece, ebbe "Auvers". Successivo a quello ambientato nel sole del Sud della Francia, comportò un diverso, più intimo sconquassamento esistenziale (non c'è lo zampino di Gauguin, che condusse Van Gogh a quella "combinazione di momenti di forza e debolezza", così oppressiva negli spiriti più sensibili. L'amore "pulito" trova quasi impreparato l'artista dei "Girasoli", soltanto un poco più pronto a contrastare il sincero interessamento del prezioso Gachet. Il fratello Theo, travolto anche lui, questa volta addirittura lo accompagna per mano verso la disfatta finale. La relativa sequenza relativa nel bordello è un tuffo nella depravazione, se opprime un po' le spettatore, data l'insistenza, sfianca mortalmente Van Gogh (l'infinito "romanzo del chissà"...). Catena invisibile, ma presente e pesante, quella tra i due fratelli uniti nell'arte.
La pellicola investe molto anche nei caratteri dei personaggi a lato, tutti rilevanti, ardentemente, per un individuo così stretto, poroso, "impressionista" e oltre. Da vedere.
(depa)

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