"Se vuoi uomini sapeste..."

Finalmente. La Sala Uander ha portato a termine il viaggio nell'opera del grande regista newyorkese Stanley Kubrick, giungendo al tanto discusso "Eyes wide shut", del 1999. Sguardo ampio nel torbido intimo umano, dell'uomo voluttuoso provocatore falso debole di questi tempi foschi, in cui tensioni animalesche sono in perenne lotta, tra morale ed istinto, propendendo inesorabilmente, socialmente (addirittura istituzionalmente) per quest'ultimo. Il sesso impera ed un'esistenza priva di appigli, permeata da un tedio vuoto ed inconsapevole, ci divide.
Che Ovidio (a cavallo di Cristo), seppur finito tristolino, "prima si fosse divertito davvero tanto", è facile intuirlo; con metrica e parole d'altri tempi, dal suono dolce e dal cuore sincero, scrisse di un "Ars amatoria" intraducibile per noi. Il gentleman ungherese, alla sontuosa festa iniziale, parla una lingua che, due millenni dopo, desta sospetto e genera confusione. Naturale che l'artificio del matrimonio diventi un "inganno necessario per entrambe le parti" e che l'animale uomo s'inventi sotterfugi sociali che permettano trasgressioni che in vetrina "non starebbero bene". Sesso mercificato su bancarelle, in salotti, su tutti media, bombardamento tutto nuovo che, fisiologicità o no dell'atto, ha creato qualcosa di nuovo, una distorsione, una creatura di carne e cerebro dall'evoluzione tutt'altro che prevedibile.Comunque, come sempre accade con Kubrick, lo sguardo è doppio (non solo il sogno); i menù per nulla fissi sono due. Oltre al contenuto, c'è l'estetica cinematografica ad altissimi livelli; "Eyes wide shut" è una prelibatezza. La m.d.p. s'aggira per le stanze sinuosa, il suo sguardo non è libidinoso, non è affettuoso. Si fa cogliere negli stati che vuole trasmettere allo spettatore: sgomento ora, allucinato dopo, qui rassegnato, là professionale. Le musiche colonne portanti della rappresentazione: dopo la classica da camera e i valzer da soirée, proprio quando il borghese sogno ovattato s'infrange in una cannabis mal gestita, il tempo verrà scandito da incessanti, snervanti battiti di pianoforte che ricondurranno al nocciolo della questione. Anche i dialoghi hanno la lentezza di un approccio un po' brillo, il ritmo di una metastasi ben avviata. Quando Bill (un Cruise nettamente sopra i suoi i suoi standard) giunge dinanzi al cerchio eroterico, le note, la voce, la danza, l'incenso, il bastone, i colpi di quest'ultimo, ricreano un'atmosfera pesante quanto un velluto spesso e scuro (e due maschere lassù occhieggiano presaghe di guai, in contrasto con l'invitante banchetto dabbasso); quando, in seguito, ritorna nel cerchio divenuto inquisitore, quei fantasmi veneziani compongono quadri inquietanti e affascinanti, evidentemente studiati con cura e sensibilità non comuni. Ben lontano da quella villa (da non raggiungere mai in taxi), ci sono le notti di New York, di cui Bill s'era troppo dimenticato. Ne uscirà colle ossa rotte, tra qualche rara fioca fonte di calore (a pagamento).Si potrebbe concludere che, in questo fluido nero ossesivo film, si sfocia alla stessa palude mefitica di follia cui si giunse con "Shining". Stessi volti in trance, su cui zoomare, dei due protagonisti; ma se un affluente partì dal bianco isolamento del nulla e dalla rossa superstizione (con un'aggiunta di fantastico); quest'ultimo proviene dalle lande affollate delle nere metropoli, dei fantasmi nascosti tra una maschera e la moltitudine, delle esistenze costipate tra cemento e sperma (tutt'altro che immaginari).
Oppure, più semplicemente, che la gelosia è una scintilla; pericolosamente vicina ad una bomba che è già su di un piano inclinato su cui, alla valanga, s'aggiungono bambole gonfiabili, veline, politici e preti sbracati e la dolce atmosfera natalizia...Ma, alla fine delle fiera, il nocciolo della questione sta nelle tette della Kidman.
Scopare.

(depa)

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