Bbff...tutto sombra

E continua a non finire. No. Scendo da via Bertani, recupero Marigrade, che mi tira quel tanto da deviare da un preoccupante Wenders (fondatamente?) e finire al City, dove danno quell'esordio indicatomi da Mino nel pomeriggio: "La tierra y la sombra", (tradotto con "Un mondo fragile"), diretto dal colombiano César Augusto Acevedo. E, forse, è andata bene così...
Sin dalla prima sequenza (quante volte ho cominciato così?), la sensibilità del giovane regista classe '84 (e quand'è che non potrò più die "giovane" un trentunenne?) è lampante. Nel senso letterale: quel vecchio che s'avvicina piano piano allo schermo, su di una strada sterrata tra le alte mura delle canne da zucchero, infine travolto da una tempesta di camion e polvere, è un'immagine che resta. Come a dire, tra le tante: scordati che l'uomo passi a gratis. Da qui ha inizio un lentamaro racconto, la m.d.p. a passo impercettibile, come i gesti dei suoi protagonisti (e la qualità dei doppiatori), siano attori o animali che passano nella visuale. Atmosfera da siesta incenerita, lavoro disperato e logorante. Il pacato, riflessivo e tenace personaggio protagonista indossato alla perfezione da Haimer Leal. Fiaccato dalla vita, la vede scivolar dal figlio, agonizzare bestia in gabbia nella giovane madre del nipote, rifulgere nel nipote. Attimi di sconforto di fronte ad immagini suggestive ma faticose. Lo studio del regista è evidente: le immagini sono gestite da un architetto cui importano massimamente le proporzioni. C'è anche un sogno fellunuelliano che ci fa seguire con lo sguardo un cavallo via di corsa, si là. Qualche frangia lasciata pendere qua e là, come avrà voluto il regista, brandelli di stracci che ci portiamo addosso, pure noi, ovunque siamo: rimorsi e rimpianti. Atmosfera grigiazzurra che ovatta lo spirito, l'anima non raggiunge la morfina. Tocca rimanere ("questa terra è la").
Con qualche innamoramento di sé, rimane un'opera ben matura, a fortiori trattandosi d'esordio.
(depa)

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