L'ultimo imperatore

Tanta carne al Cinerofum, sopra il fuoco sì. Andiamo a ritroso, partendo dalla visione di ieri sera in sala Valéry. In scia all'ultimo "Caligari" uscito nelle sale, dall'archivio dell'affiliata sala Carmine ci è stato proposto un cult che noi facciamo rientrare istintivamente nel ciclo "robba": "L'imperatore di Roma" (1987) di Nico D'Alessandria (1941-2003).
Domenico D'Alessandria e il protagonista Gerardo Sperandini ci mettono anima e corpo: "Lanciamo un messaggio va'". E questo arriva, altroché. Raccomandazioni dall'oltretomba: "Nu te fa' l'anfetamina!". In una Roma che il regista pare ben possedere, tra una "spada" e un'immagine differente. Gesti inconsulti e, perciò, rimandanti altra metrica, altra poesia (i fazzoletti nel Tevere). Sullo schermo, tra la regia e la fotografia del caparbio Roberto Romei ("difficile far tutto da solo e girare con quei due..."), una sensibilità artistica che fa si che, da mero esercizio borderline e provocatorio, la pellicola d'innalzi ad opera matura, a testa alta. Sperimentale? Nemmeno così tanto. Taglio quasi documentaristico? Sotto alcuni aspetti. Pur nella stilizzazione accentuata (il non dialogo col padre, la prima rissa), pur nel rallentamento eroinomane riducente (altro che ampiezza percettiva), la narrazione è viva (morta), realistica, profonda, lineare (circolare). A tratti ha il sapore di un videoclip: rivedo una VM verdeblu che mostra un pop rock che vagabonda inquietoincazzato (biancoEnero). Il ritmo inesorabilmente accelera, un'assillante e vuota ossessione. Elena, come anche il regista, rileva maggiormente il senso folle d'onnipotenza di Gerry ("lui che vaga e CI CREDE, si sente un grande"); io resto inchiodato al suo vagare solo; non colgo la nota precisa, la parola gridata, rimango fermo al rumore lontano, al soffio d'alito: la ridondanza terminale d'un fuoco fatto ("si ma è quando vaghi da solo che ti raffronti e pensi: 'sono Dio', non se giri chiacchierando con qualcuno", sicuramente).
"Dumila anni", davvero tanti, troppi: pure i lampioni lampeggiano per metterci all'erta, infine eccoli rassegnati, assieme alla fondamentale assordante colonna sonora ("Tan Zero").
Minimalismo di borgata, bressoniana romanesca. Una Roma assolutamente. Ormai possiamo immaginarcelo eccome.

Nell'interessante extra del DVD, intitolato "La follia diventa cinema", oltre alla messa in luce del forte legame tra il film e il regista (e quest'avventura maledetta con Sperandini e "Il Professore"), la rivelazione di una coincidenza rigonfia di maledetto destino: Gerry morto due giorni prima di quel Dumila cui, come disse il regista, "teneva tanto".
(depa)

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