"Disgusto totale"

Al secondo spettacolo, ieri sera, mi sono spostato nell'altra sala del City. Questa volta Marigrade ha visto con occhio, prima di suggerire. Quindi, nonostante il trailer mi avesse terrorizzato, mi sono seduto davanti a "La legge del mercato" con una certa confidenza...regia di Stéphane Brizé (Rennes, 1966). Film francese tremendamente realistico, ecco a voi uno scorcio sulla miseria che accompagna il nuovo vorace capitalismo.
L'agghiacciante cinema che deve essere fatto. Un quadro tristissimo. Ha ragione Baraka quando parla "di claustrofobia provata nel guardare il protagonista", attorno a lui apnea. Si prova nausea, per questo mercato. Mica colpa del film (o dell'arte in generale). Anzi, merito del.
Te la ciucci tutta questa situazione del belino, caro spettatore. Zero FFWD a disposizione, come nella vita. Chissà quanti spettatori si sono trovati nella situazione di sgomitare e sbranare e aggiustarsi tutte le crepe della coscienza con qualche teoria o motto davvero arguto quanto infame, chessò, "lotta per la sopravvivenza", "mors tua" e via così. Chissà che avranno pensato..."Beh insomma, funziona così" (anche se qui, a guardare bene attorno, non funziona proprio niente). Sempre e comunque "servire il cliente", per dimenticare il padrone.
Il regista, contrariamente a quanto avesse fatto supporre la fuorviante anteprima, è stato abilissimo nel non scadere mai nel melodramma. Pure la scelta di un figlio con problemi fisici, che all'inizio mi ha fatto storcere il naso, ha il solo effetto di innalzare il coefficiente di difficoltà nella sfida, vinta, di non perdere il controllo emotivo sull'opera. Coll'avanzare della "pellicola", data la natura del racconto, si ripeteranno le occasioni in cui il regista mostra la sua abilità nel non calcare, né strafare (sul figlio; sui furti "in diretta", assenti; sull'aiuto ipotetico, rimasto tale, al vecchietto pizzicato). Inoltre, diventa meno confuso quel "fare altro" in cui Thierry pare incespicare all'inizio (ho praticato questa religione, rifiutando un avvocato per "non iscrivermi al gioco").
Film in cui il retrogusto di vomito provato di fronte a questa retorica, che ormai tutti accettiamo tutti i giorni, dovrebbe essere mantenuto in bocca almeno sino al nostro rientro in ufficio. Stupidaggini davvero realistiche, pronunciate con autentica meschinità (ma in giacca e cravatta!). E sapeste quanta fiducia in voi abbiamo noi...
Vincent Lindon, l'attore protagonista (che già convinse me in "Welcome" e Bubu in "La crisi!"), è perfetto nel portarsi addosso una domanda cocente. L'incontro tra i suoi turbamenti e gli indugi del regista (che, come detto, non fa sconti) è la vera forza, oppressiva, di questa pellicola.
Cinema nudo (in braghe di tela), dalla pelle gelida ma asciuttissima. Bastardi.
(depa)

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