Corvi e scrivanie, i matti migliori

Come già detto, insistimos! In sala Valéry imperversa la filmografia di Tim Burton. Ecco "Alice in wonderland", del 2010, ispirato, ora liberamente ora pedissequamente, a quello specchio infranto, infiniti frammenti possibili, che fu l'opera di Carroll.

A parte la caduta nel paese delle meraviglie, che si ripete sempre uguale in ogni dove, tal paese prenderà le forme più svariate, tante quante...quelle della mente ("mente?"). Letteratura e Immaginifico si danno appuntamento al cinema, per combinarne delle belle, assieme a Burton e collaboratori (Elfman pifferaio magico, sempre lui). Film stimolante e ambizioso. Stimolante perché le riflessioni si propagano: Alice, 13 anni dopo, vuole fuggire via angustiata, più che annoiata; l'affascinante lotta di Alice per vivere i propri sogni (non imposti, perfino nell'immaginazione, dai gendarmi del fantastico!). Ambizioso perché si confronta, volente o no, con un testo sacro, pronto a suggerire e confondere le idee. In tal senso, la volontà del regista di restituire il vero carattere dell'opera di Carroll, andato perso, secondo lui, con le rappresentazioni precedenti (mera girandola di personaggi folli), è stata esaudita in parte. Primo perché, soprattutto nella prima parte, la sensazione di seguire un percorso "obbligato non agevole" rimane eccome. Secondo perché, personalmente, un bel viaggio è proprio una carrellata unica di personaggi e paesaggi (in realtà o in fantasia), nessuna geometria richiesta. Carroll l'avrà avuta, non ne dubito. Ma se la tenne stretta... In questa pellicola, alla lunga, la sfida viene persa, con un dignitoso 3-4 diciamo. Non solo lucciole, quindi, oltre al finale un po' moscio, nonostante l'epicità dello scontro finale, e scontato; non tanto per l'"happy", tutto sommato riuscito (anche se due "anti" s'annullano...), quanto per un magic quid venuto meno, trame e cuciture palesate, gli occhi si riaprono a poco a poco. Asciutti.
Pellicola che, va ammesso, sul piccolo schermo (in sala Valéry...) risulta braccata; peccato non avere goduto al cinema dell'avvolgente atmosfera digitale di uno schermo che si fa tavolozza personale del visionario Burton.
Finalmente, dev'essere visto poiché è un'opera chiave del regista, soprattutto per quanto rappresentò per lui stesso, piuttosto che per il risultato, il quale, se confrontato con altre sue (con quel "grosso pesce", per esempio), spalanca ben poche bocche.
Sottotitolo: "perché a stare sempre in questo mondo si diventa pazzi, sempre in quell'altro lo si è".
(depa)

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