Giusto per gioco

Per la serie: "guardarsi le spalle è bene, non sempre meglio", dopo aver visto l'ottimo film ungherese in questi giorni nelle sale, tornato in sala Valéry m'è venuta voglia di voltarmi di una ventina d'anni. Malauguratamente, ma non a sorpresa, "He got game", pellicola del 1998 diretta da Spike Lee, dimostra tutte le sue lacune, tra retorica delle immagini e delle parole, classificandosi come film per ragazzi non ancora maturi. Ecco perché ho aspettato tanto...
A malincuore, ho da anni la percezione di una certa confusione nella testa e nell'opera del regista di Atlanta. Soprattutto a valle delle emozioni provate nel primo suo film che vidi (recensito sul 'Rofum da Bubu). Come il vino, l'opera di un regista rivela molte verità. Questa pellicola, allora, è un amarone da 17% (quanto a realtà svelate, intendo); proseguiremo il percorso, senza pregiudizi: ehi, siamo il Cineforum!, ya man, già sapete.
Quasi preparandosi ingenuamente un'efficace controbattuta, il regista inizia questa scontata storia di emancipazione giovanile e razziale, fatta di basket, sogni e soldi, con un "bianco" (palleggiante sotto un canestro di strada). Si rivelerà l'unica delicatezza, velata quindi più efficace, di tutta la pellicola. Overture patinata e prevedibile come un videoclip di MTV, mostra rallenti sulla pallacanestro che travalica ceti, razze e quartieri. La voglia di voler bene a questo film s'affievolisce, scontrandosi con la lunga serie di cliché rispettati: gli zii sono troppo tremendi, i dettagli sui loro occhi e bocche pure (passaggi che in "Fa' la cosa giusta" erano immersi in un quadro, sì degli orrori, ma adatto). Non si eviterà nemmeno l'accenno alla leggendaria virilità dei neri. Il "povero" Denzel Washington, comunque sprecato per un tal soggetto, sarà costretto a dialoghi ed espressioni rattrappite (l'accenno "tua madre sarebbe stata..." causa un conato ancora facile da gestire), ma non può nulla, è circondato: imperversano luoghi comuni non censurati e interviste ai sostenitori della promessa del basket (mai camei tanto avulsi). Il nome del pappone ("Dolcezza") rimane la sola perla (a suo modo), assieme alla volitiva performance di Washington e, forse, la fugace passeggiata infernale tra le prostitute.
Spike sbaglia forte, ambizioso e non pronto. Magari soddisfatto di un'idea, che so: una scopata su ruota panoramica (con tanto di fuochi d'artificio orgasmici), inanella una catena di sequenze zuccherine che proprio non ci s'aspetterebbe dal regista simbolo dell'aspra lotta per i diritti civili degli afroamericani (i flashback della madre che dà lezioni di vita al figlio; il litigio al neon verde tra i due fidanzati).  Chiudendo con una sequenza finale devastante, inenarrabile.
Ammettiamolo: quell'autentica lezione, datata 1989, è già dimenticata.
(depa)

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