L'ottavo nano

L'ultimo film di Quentin Tarantino, "The hateful eight", è una carnage su far west innevato. Massacro in interni per iene sanguinarie, per 8 bastardi ammazza-indiani. Se i brutti ceffi del titolo sono bravi tiratori, con le parole, però, hanno miccia corta. E il cast in Ultra Panavision '70, che promette meraviglie rétro, si ritrova, quasi a tempo scaduto, con un pugno di battute infreddolite...

Elena ed io, seduti al cinema Corallo, siamo pronti. Le quasi tre ore di pellicola, suddivise in sei capitoli, trattandosi di Tarantino, fanno meno paura. "Il tempo scorrerà, liscio come la tua pelle", dicevano i Lyricalz, nessuna preoccupazione, solo piacevole attesa.
Si parte. Sino all'episodio due, una sbruffona, futile quanto propedeutica chiacchierata in carrozza, che se è marchio di fabbrica nel cinema di Tarantino, rappresenta una novità (per taglio e durata), un passo in là, nel panorama dei film western. Ne diamo atto al regista di Knoxville. Sia chiaro: sarà sempre una questione di bianchi e negri che s'ammazzano.
A tre quarti del film la mia attesa inizia a farsi meno piacevole, le preoccupazioni ad ammassarsi all'esterno dell'emporio di Minnie. Io sto con Quentin. E martello due assi alla porta d'ingresso per non farle entrare, ma con la bufera che imperversa... Mi metto gli occhialini da ragioniere e faccio due calcoli. All'appello mancano: una sequenza dal forte impatto visivo (ok, Elena, è vero: il p.p. rallentato sui cavalli in corsa. Bella, ma non "tale da", il regista lo sa bene e taglia corto); una trovata geniale di cui parlare in area break (ormai abbiamo 3 dita, anzi 4, consumate, dopo 5 anni di spiegazioni); una battuta indimenticabile che ronzi sino a casa (ripenso al cartello rivolto a cani e messicani ma, ammetterete, se non manca d'effetto, lo fa di originalità). E siamo al quarto episodio.
Non può essere altrimenti: è quando il piatto piange, senza contorno e seguito, che si tiene l'unico boccone tra i denti, succhiandone tutti i gusti, pronto alle lagnanze. E' l'attesa tradita che mi fa mettere a fuoco (come fa il regista che adoro quando giochicchia con lenti e focus) aspetti che, di solito, scosterei distrattamente colla forchetta sporca-rossa-unta del piatto principale. Scomparsi gli elementi, la gratuità di conati e spruzzi sanguinolenti si staglia chiara e isolata. Se a Tarantino s'è sempre concesso l'accanimento visivo dei truci dettagli, è perché quelle teste a brandelli, quelle eruzioni emorragiche, erano corolle rubine del centro d'attenzione: il racconto; fiori di porpora che si tollerano col sorriso poiché si sta già pensando ad altro: al racconto. Ci siamo capiti.
Si giunge così al quinto capitolo, col classico flashback da "altra visuale" alla Tarantino. Guardo l'orologio, ormai rassegnato. Anche se scoppiasse una bomba atomica sullo schermo... Il fatto è che...che...Tarantino non mi è mai piaciuto soltanto per quanto visto in questo film. Ma soprattutto per tutto il resto: trama coinvolgente come un amico ed esatta come un orologio; atmosfera degradata e graffiante, un lessico analogo; in ultimo: un colore prevalente, un tratto unico, una traccia d'autore che in questo caso, proprio in quello più ambizioso, viene meno.
"Per come la penso io..." l'elemento più apprezzabile, assieme a "Chris Mannix" e la bagascia (Walton Goggins e Jennifer Jason Leigh, grande "non protagonista"), rimane lo sfregio finale a questi States tanto liberi quanto forgiati nel sangue, pallottola dissacrante ed avulsa (ma chi se ne fotte testa di cazzo?).
(depa)

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