Morte e vitigni

E' bello entrare nella piccola sala dell'Altrove, per il solito appuntamento in pellicola, e aspettare che si spengano le luci per: 1-scoprire che alle nostre spalle c'è niente po' po' di meno che Miss Sospiro, che dovrà comunicare a tutti le proprie sensazioni e 2-veder comparire al nostro fianco il Tizio Che Compare Sempre 20 Minuti Dopo, che inizia a maneggiare il cellulare fregandosene del film (c'è sempre, un po' come gli automobilisti francesi per statali e provinciali: non sarete mai soli, si appostano chissà dove e vi si attaccano dietro). Ieri pomeriggio, poi, è stato bello pure il film quindi che volere di più: "Il padre del soldato" è una pellicola sovietica diretta nel 1964 dal georgiano Revaz Chkheidze (1926-2015), dove un gigante buono percorre la follia della guerra: si dà la vita per una terra che, in realtà, si vuole morta.

Il grande e grosso a più non posso, gigante buono, George s'è messo in marcia verso il figlio e noi lo seguiremmo per l'intera Madre Russia, perché quel rozzo contadino pare saperne più di 1000 ufficiali. I volti scolpiti da fatica, pioggia e vento, paiono usciti da un cinema di almeno 30 anni prima, ma il cinema russo, si sa, qualcosa ha pagato. Sia chiaro, per certi versi il risultato ne giova. E' proprio fedele ai canoni espressionisti è la scena, a mio avviso più intensa e affascinante, in cui George invoca proprio figlio tra i carri armati in transito: giochi di luce dove si stagliano il profilo di George sormontato da enormi creature di ferro, sorgono dagli inferi, tra fumi ed esplosioni che aumentano il caos.
E' guerra vera, tutt'attorno, l'aria è densa di fumo morte, tutti (Arkadi e George) sono braccati come gli altri, impazza la follia umana. A causa dell'età il colosso baffuto George (Sergo Zaqariadze, la sua stazza e la sua grinta i veri protagonisti) non viene preso sul serio, ma il cuore può più dell'arma, e infatti arriverà. Assieme ad altri momenti di grande effetto lirico, come la sonata georgiana in trincea (il protagonista, dopo tre notti e tre giorni di battaglia, non si sveglia ma riposa sulle dolci note native) e ad altri intrisi di retorica (il cartello del confine russo), la pellicola scorre gradevole e spigliata, con gli improvvisi ma addomesticati scontri al montaggio, propri della grande scuola sovietica (di 30 anni prima...).
Nella seconda parte pare girare attorno (avvicinarsi stancamente) alla suggestiva sequenza finale della ricongiunzione col figlio, ma ripeto, seguirei il tenero e ingenuo George sino al Mare del Giapppone.
(depa)

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