Giallo di colpa a Liegi

Parliamo un po', da soli, dell'ultimo film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, "La ragazza senza nome". All'uscita dell'Ariston, Elena così così, Mino entusiasta ed io tra i due. Dardenne anomalo? I puristi potrebbero storcere il naso. Marigrade, centrando, parla di respiro più angusto del solito. Ma, a mio avviso, quest'ultima opera è apprezzabile proprio per la sterzata con cui il cinema fortemente civile e psicanalitico dei fratelli belgi s'accosta al filone del giallo (grigio Liegi, nordico no Scandinavia), più prettamente narrativo. Si badi bene, sempre col loro stile.

Mi spiego. Un film sul senso di colpa, va bene. Ma anche un film d'indagine; inchiesta testarda che trova ragione nel rimorso della magnetica protagonista, ma che si sviluppa, elemento direi nuovo nella filmografia dei Dardenne, lungo i canoni dei gialli psicologici. Ad esempio, la chiave di volta nella ricerca in apparenza inconcludente di Jenny: i battiti rilevati alle tempie. Non è il solito indizio materiale, fisico, concreto (come una macchia di sangue che cola attraverso una porta). E' qualcosa di metafisico, un passaggio che solo nella "finzione" può trovare il proprio habitat (se avesse basi solide, pensate un po', Guantanamo diventerebbe un centro massaggi), escamotage mai visto nei loro precedenti.
Pellicola che si fa dardenniana, nell'accezione più nota (cinema sociale che inchioda alle responsabilità), più che nel rappresentare le personali turbe della protagonista (prive di fondamento tra l'altro), in alcuni momenti topici del loro cinema. Come quando i due genitori si recano allo studio medico per chiedere di "essere lasciati in pace" (poi noi scopriremo il perché, ma la compagna no). Qui si mette in luce ancora una volta l'incapacità dei cittadini delle nuove città di comportarsi come tali; si vedono gli effetti di una società sbagliata, che semina male e razzola peggio. Per tutta la restante pellicola, nessun episodio di prevaricazione statale (del capitale): ecco il punto di rottura più lampante con la precedente filmografia.
Interessante anche la figura dell'apprendista: quante scosse sotto i volti degli impassibili (keep in mind).
Fosse soltanto un giallo si tratterebbe, per me, di un passo falso (la suspense non è rincorsa affannosamente: a proposito, manca una ripresa in corsa!); idem se fosse il consueto e agghiacciante affresco sociale: girare un film di due ore sul senso di colpa, così ridondante, senza il "ritmo del conflitto", sarebbe grave (ciclicità consona, invece, ad un inchiesta poliziesca). Passo che si fa curioso e diverso, invece, nel momento in cui la claustrofobica esistenza della protagonista, costantemente vittima di irruzioni che, se da un lato assillano, dall'altra paiono l'unico riparo dal dolore più lancinante, quello della colpa, viene ad incrociarsi con la frustrante indagine; quando, cioè, alla protagonista, ritratto con sguardo fortemente individuale, nonostante l'assenza di dettagli (solo il presente, con le espressioni del suo volto), si affiancano gli altri. Le altre soggettività. La rete dei rapporti metropolitani è ormai labile. Tra i diversi rapporti di dipendenza tra noi e chi ci circonda, spesso soggetti a mutamenti, tutt'altro che fissi, si svolge la trama dolce e violenta dei nostri percorsi. L'indifferenza s'accompagna ad un panettone. La morte ad una nuova nascita.
Concludendo, ho apprezzato questo film per la vena sperimentale o, comunque, per lo spostamento di rotta che, per quanto adori la filmografia dei due fratelli belgi (che, ormai lo sapete, ritengo tra i migliori cineasti contemporanei), si sarebbe potuta tacciare di eccessiva fissità.
(depa)

ps: forse anche l'ultima scena, con la sorella della vittima, denota un'insistenza tra l'ingenua e la morbosa...peccato veniale. Dardenne forever.

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