Vuoto di pena e morte

Infine si concluse la rassegna dedicata ai documentari firmati Werner Herzog. All'"Altrove", dove ieri sera m'ha accompagnato pure Elena (dovresti esserne orgoglioso Werner), hanno proiettato "Into the abyss" (2011), che, come presumibile, partendo dall'istituzione della pena di morte, ci porta nel buio più profondo degli Stati Uniti, dove la comunità è un puntino lontanissimo.

Nel paese di chi parla di morti privi di parenti in termini di "spese dello stato", dove il nome sulle tombe non viene riportato se il deceduto non può permetterselo, la pena di morte è l'infame ingranaggio necessario. In questo senso, l'inquadratura di quest'opera di Herzog parte piuttosto stretta sul caso particolare (interviste agli ufficiali in servizio e filmati delle scene del delitto), per poi allargarsi non tanto sulla capital punishment, quanto sull'agghiacciante quadro sociale americano. I "figli del far west" paiono una comunità persa, in presa ad una follia collettiva, senza punti cardinali. I romanzi di Bunker sono materia viva laggiù. Neuroblastoma, più operazioni, il padre dentro da sempre (e per sempre), la madre messa male. Dotare una vita travagliata del meccanismo d'innesco, armare una mano sola e disperata, non è la scelta più saggia che uno stato (stato saggio?) possa fare. Ovvio che il risultato di tutto ciò, tra conti correnti e pistola, sarà che se un individuo potesse tornare al bivio, per riscrivere un'altra vita, sceglierebbe la squadra di football. Che un fratello della vittima lo ricorderà solennemente con la canotta dei Dallas Vattelapesca (tanto là i nomi se li scambiano e finiscono dove il dollaro chiama). Che, insomma, gli anticorpi per non essere in balia di Stato e Potere, siano naufragati in altri tempi e luoghi.
Saggia risulta invece la scelta del regista bavarese di scegliere un caso "bianco", non siamo ancora pronti (altrimenti il discorso non sarebbe nemmeno iniziato...). Herzog non s'arresta e, bayer trademark, fa vanto del suo acume e suggerisce addirittura le risposte agli intervistati. E se la sorella stravolta, all'imbeccata del regista "è per questo motivo che non vuoi più il telefono?", avesse risposto "che minchia dici, è solo che non voglio che mi rompano"?
A parte i dettagli, resta un documentario di grande interesse, consigliato.
(depa)

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