"Wine and roses"

Ieri pomeriggio, appena giunto a casa, invero su invito del buon Sergio (che ringrazio per gli ottimi spunti), ho accolto John Huston in sala Valéry. Più che fiducioso, sicuro, sono stato a guardare e ad ascoltare questo scafato regista nato a Nevada nel 1906 (-1987). L'ora e mezza passate assieme rimarranno come qualcosa di intimo, nostro, unico. Il suo racconto di Billy Tully, uno dei tanti "grandi", sfiora e morde, tra gli spartiti di un'amara melodia vitale: "Città amara" (1972, t.o. "Fat city").

Attacco bellissimo, poetico, sull'altra America, quella che solca i marciapiedi, quella dei Miserabili Autentici. Poi l'intreccio dalle parole e note di Kristofferson ('70), s'incammina dietro i passi di Leonard Gardner (soggetto). La pellicola accompagna Tully sin dal solitario risveglio Tully e, dopo averne colto i gesti e le inquietudini (l'accenno di danza davanti alla porta lo guarderò una volta alla settimana), ce ne mostra l'arrivo presso il suo luogo-fuga, la palestra. L'ispida ma affettuosa accoglienza al giovane e promettente pugile potrebbe far pensare al classico film a tema sportivo con l'ormai "ex" che instraderà, al di là del risultato, il pulcino (qui piumino). Ma John Huston mangiava pane e cinema, lo respirava. Pertanto lui poté agevolemente fare una capatina nella semplicità per poi innalzarla al livello della ricercata e consolidata bellezza. Ed ecco i meravigliosi momenti tra un allenamento e l'altro: davanti ad un bancone e due bicchieri, o a faticare sui campi o sotto i meli. Vedere per credere: attimi mai calcati, sempre intensi (c'è qualcosa di Steinbeck in questa storia). Huston non perdona. 
Scritto ciò, è impossibile, ci scusi il maestro del Missouri, non tributare doverosi quanto entusiastici apprezzamenti ai due principali protagonisti (mi viene ancora la pelle d'oca scrivendone, credete?): lui, Billy Tully, "L'orgoglio di Stockton", interpretato da Stacy Keach, classe 1941 che vien dalla Georgia, qui eccezionale nel seguire regista e collaboratori lungo il malinconico viale di un tramonto già avvenuto e, ciò nonostante, dalle sfumature ancora percepibili. Lei è una sbandata, per debolezza o per troppe ferite, e nelle grida tonanti e negli entusiasmi lampo si condensa ancora quell'America pennellata nel meraviglioso incipit (di cui ho): interpretazione straordinaria di Susan Tyrrel, californiana del 1945, scomparsa nel 2012, Entrambi giovani attori, dimostrarono maturità che solo un coinvolgimento profondo dovette fornire loro.
Infine, trattandosi anche di un film sulla boxe, non resta che evidenziare il fascino delle immagini sul ring, ora cattive e dure, sozze di sangue, ora permeate da una sorta di tenerezza che avvolge i due poveri avversari. Tutte sensazioni che non lasceranno la pellicola sino all'originale, acuto, potente finale. Stop alle ciance, stiamo un po' qui: parliamo.
Se vi capita, guardatelo in lingua originale ("You can count on me"), per gustare meglio gli ottimi dialoghi e portarvi dentro al cuore, nonostante non siate del Nord California, il buon Billy Tully, sempre pronto a dare una mano e senza illusioni, a lottare senza speranza.
(depa)

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