Noi, ipocriti felici

Oh. Ogni tanto un diverso compare all'orizzontale. Quasi in sordina sta passando nelle sale l'ultima "Palma d'oro". Un freddo venerdì può essere ben speso con percorso cinematografico originale (scandinavo), graffiante e provocatorio. "The square", diretto dallo svedese Ruben Östlund è un ottimo strumento audiovisivo per rilevare tracce di profonda ipocrisia nell'aria (compresa la sala del cinema).

Partendo da un'intervista sul tema Arte e Musei, con la più scontata, ma proprio per questo appetibile e diffusa, delle considerazioni, il film proseguirà lungo lo scabroso sentiero (come detto, comodo ai più) del pensiero unico, quello perseguito e accettato in nome dell'auto-assoluzione di fronte allo sfacelo dei primari (e primitivi) valori umani. Di qui l'opera catartica di smascheramento acuto quanto ironico, più che evidente se ne si ha la voglia, ignorabile altrimenti (certo, rimarrà il fastidio di una comunicazione a dir poco irritante). Tante sequenze di grande impatto visivo, uditivo ed emozionale. Alcune geniali, come quella dello "scippo", sia per inventiva, sia per rappresentazione (con l'indimenticabile quanto angosciante "fuori schermo" che incombe), altre potenti, come quella che si ricorderà a lungo della cena di gala cum piteco (tra le tante letture, tutte da fare, sarebbe colposo trascurare l'abissale inadeguatezza e distacco dell'uomo dal mondo animale, recisione mortale acuita dal pensiero borghese post illuminismo e, soprattutto, rivoluzione industriale, con progressiva prepotenza e putrefazione antropocenica).
A far fronte alla dilagante solidarietà d'accatto, quella delle vuote parole e delle comode donazioni, il film stuzzica, pungola con sequenze a dir poco dissonanti (dopo la sequenza accennata sopra, il sonoro "invisibile" e minaccioso sarà una grandiosa costante). Östlund ci schiaccia il muso contro, perché non c'è da ridere: siamo noi. Quelli stessi sensibili, sì, agli emarginati, ma anche alle loro eccessive pretese. E tac, Östlund inchioda, in sala, chi verrà allo scoperto: "hai capito, la signorina!".
La danza delle apparenze batterà il tempo (scippo, gondone, nome); ogni lato del quadrato, lungi dall'essere solida parete, suggerisce un punto di vista ben distante, e al pubblico in sala, tanto pieno di sé, possono capitare solo due cose: continuare a soffiare nel proprio ego, o cominciare a frantumarlo (come il pavé dell'installazione artistica o le posate e i cristalli delle tavole imbandite). Pellicola degli alibi stracciati, delle supercazzole imperanti messe a nudo. Da un po' di tempo, forse complice il lessico comico, e perennemente in ritardo, delle nuove e-tecnologie (ware volatile per definizione), la società pare aver accettato e fatta propria l'eloquenza più sterile, supportata da smorfie e gesti che tengano a galla il plumbeo nulla, lasciandoci infine inebetiti senza alcunché.
Spalti di genitori in orgasmo dinanzi ai guizzi di bimbe sode occhiolinanti, techno pedofilia non colta perché imposta (quindi accettata), la falsità dietro una preziosa seta. In tal senso il protagonista (il danese Claes Bang, bravissimo), avrebbe fatto bene a mandare a farsi fottere sia la sua ingessata superiore, sia i pennivendoli ansiosi di scalpore. Ma rientrerà nei ranghi, decretando la propria morte intellettuale, prima che professionale. Come detto, il punto è che, a scavar bene, siamo d'accordo con la cicciona bigotta tra il pubblico.
Il pensiero critico delegato alla nostra brutta copia (perennemente in fondo al cassetto), o a team di consulenza S.p.A. che, di fatto, ne avranno uno tutto per loro (associato ad un IBAN). Beffa finale, un decenne, che pare nato da sé, ci dà lezioni di vita; maturo ed autonomo nella società perché non ancora, del tutto, contraffatto. Dinanzi a lui, non resta che perpetrare l'auto-assoluzione quotidiana con l'ennesimo messaggio vocale. Sempre al di qua dello schermo, per non incontrare i suoi occhi; né i nostri (se non in selfie).
Si ride molto, l'incazzatura viene dopo: gran film.
(depa)

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